Lacrime di coccodrillo

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Johannesburg, Natal, Milano, Palermo. Cos’hanno in comune la città più popolosa del Sudafrica, la capitale dello stato Federale del Rio Grande do Norte (in Brasile) e i capoluoghi di Lombardia e Sicilia? Lacrime e sgomento.

Le lacrime (sportive) e lo sgomento di chi attonito credeva che Slovacchia-Italia 3-2 andata in scena a Johannesburg il 24 giugno del 2010 rappresentasse il punto più basso raggiunto/raggiungibile dalla Nazionale Italiana di calcio. La Nazionale Campione del Mondo in carica, infatti, usciva di scena ai Gironi di Sudafrica 2010 con Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda. Non proprio un girone di ferro.

Tra rabbia, delusione e rimpasti, però, si continuò a scavare. Portandoci a Natal, nel 2014, con l’inzuccata di Godìn ad eliminare l’Italia per la seconda volta consecutiva alla Fase a Gironi di un Campionato del Mondo; dato, questo, che cominciava già a risultare grottesco. Pala alla mano, però, si riuscì a far di peggio: si era sul finire del 2017 quando al Meazza di Milano la Svezia riuscì a strappare all’Italia di Ventura lo 0-0 che, a 60 anni dalla mancata qualificazione del 1958, costò il pass per Russia 2018. Il resto è storia recente: il viaggio è più breve, da Milano a Palermo, la figuraccia però è “Mondiale”. Italia-Macedonia del Nord 0-1. Ogni ulteriore commento, ci risulta del tutto superfluo.

Lacrime e sgomento, dicevamo. Esistono tanti tipi di lacrime, con significati e stati d’animo a volte anche contrapposti tra loro: di gioia, di tristezza, di felicità, di commozione. Queste, però, sono lacrime da un retrogusto ancora più amaro: trattasi, infatti, di lacrime di coccodrillo.

Nell’accezione primaria le lacrime di coccodrillo sono quelle versate da una persona che, in realtà, versa lacrime “di rappresentanza” per un evento nefasto che, in realtà, non lo tange in maniera così profonda. Altra accezione è quella che le attribuisce a chi “piange” per un evento disgraziato in realtà da lui stesso procurato, probabilmente del tutto prevedibile/evitabile. Vedremo come le odierne lacrime del calcio italiano presentano i crismi di ambedue le fattispecie ora descritte.

Una premessa è doverosa, prima di enunciarli. Nostro malgrado, il primo responsabile per la mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali 2022 è il CT, Roberto Mancini. Non vincere nemmeno una di   cinque partite con Svizzera (due volte), Bulgaria, Irlanda del Nord e Macedonia del Nord è francamente grottesco aldilà di ogni alibi per la Nazionale Campione d’Europa e, in finale, difficilmente accettabile.

Se i demeriti sono quasi tutti di Mancini guardando alle cose di campo, lo 0-1 con la Macedonia del Nord ha certificato in via ufficiale (finalmente?) la decennale cancrena che attanaglia il football Tricolore. Per questo guardare solo alle colpe del CT, in un momento di doverosa rifondazione, sarebbe un po’ come guardare al dito quando il saggio ti indica la luna.

Rifondazione doverosa, a tutti i livelli. Come può, però, rifondarsi un calcio che economicamente è in molti casi alla canna del gas?  Come può rifondarsi un calcio che, incapace di coltivare e sviluppare fonti di reddito diverse, è alla mercé di televisioni interessate a trasmettere un numero di eventi talvolta insostenibili per i calciatori? Come possono rilanciarsi società che, spesso e volentieri, hanno la salvezza dei propri bilanci (e quindi della loro esistenza) in plusvalenze più o meno credibili che minano ogni discorso di sviluppo tecnico della rosa? Come può rifondarsi un movimento fragile come quello italiano in un sistema che, a livello mondiale, vede sempre più i calciatori mossi come pedine da procuratori che cercano di massimizzare la propria utilità piuttosto che dai direttori sportivi? O che, ancora, è/è stato storicamente incapace di completare un vero rimpasto politico/dirigenziale a livello sportivo?

Come può rilanciarsi la Nazionale di un paese che il 25 marzo è in lutto sportivo per la sconfitta contro la Macedonia del Nord ma che, come a più riprese “denunciato” da Coverciano, quasi mai ha prestato ascolto alle esigenze della Nazionale? Ultimo, in ordine di tempo, è l’esempio del mancato stop richiesto per la preparazione dei playoff mondiali prematuramente conclusisi per gli Azzurri.

Come può rilanciarsi la Nazionale di un Paese che di spazio ai giovani non vuole saperne di lasciare se non all’ennesima convincente stagione di gavetta? In un contesto, inoltre, nel quale riprendendo le difficoltà economiche prima richiamate i club sono loro malgrado spesso anche impossibilitati ad investire sul “made in Italy”, perché con una manciata di minuti in Serie A le valutazioni diventano già milionarie e inarrivabili. Un esempio relativamente fresco è quello di Lorenzo Lucca, giovane dal talento cristallino su cui però dopo 6 gol in Serie B le pressioni si sono improvvisamente decuplicate arrivando inspiegabilmente a stabilire un valore di 20 milioni di cartellino.

Come può rilanciarsi un movimento calcistico nel quale, in palese contrasto con il trend che il calcio in Europa ha preso da dieci anni, il “corto-musismo” è decantato con tono incantato ed apologetico? Quello che ne consegue, tristemente, è la sensazione di guardare “un altro sport” quando ci si sofferma a veder la Serie A. Non tanto al confronto la Champions League, ma anche guardando a una normale partita di Premier e/o di Bundesliga, dove pur se con valori tecnici non fuori dal normale il gioco è condotto con un ritmo e una velleità offensiva che in Italia hanno pochissime squadre; l’Atalanta degli ultimi anni, ad esempio, che su questo versante (intensità e gioco d’attacco) è stata spesso “normalizzata” dal confronto con il resto d’Europa. Ottimi i risultati in Europa della Dea, ma la sensazione di “dominio e strapotere fisico” dei ragazzi di Gasperini, in Champions ed Europa League, si scontra spesso con avversarie che rispondono pan per focaccia, differentemente dal Campionato Nazionale.  Per non parlare, poi, delle altre “big” o presunte tali; anzi, di Juventus per fare un altro esempio abbiamo parlato qualche giorno fa.

In ultimo, come può rimettersi in piedi un movimento calcistico livellato verso il basso in maniera graduale e continuativa dal 2004/2005? Il richiamo è alla stagione dell’allargamento del Campionato a 20 squadre; l’effetto domino è stato innescato da club che a causa delle difficoltà economiche menzionate in apertura hanno fatto spesso fatica ad allestire squadre all’altezza della massima serie. Retrocessioni annunciate a “beneficio” di un ceto medio cui è gradualmente servita sempre meno qualità (e quindi sempre meno investimenti) per mantenere la categoria, fino ad arrivare per estensione ai club di vertice del nostro Campionato cui è stata gradualmente necessaria sempre meno qualità per combattere per le posizioni di vertice.

Lacrime e sgomento, dicevamo in apertura, e in finale un magone allo stomaco. Perché non si vede, nel breve periodo, la luce in fondo al tunnel; e “campanilisticamente” un pizzico di invidia per i “cugini” tedeschi, che vent’anni fa avevano problemi non diversi dai nostri e dopo il disastro di Euro 2000 (ultimi nel Girone con Portogallo, Inghilterra e Romania) guardavano con terrore agli imminenti Mondiali casalinghi. Come ne uscirono? Con l’Extended Talent Promotion Program. Acronimo che menzionato così dice poco, ma che ha numeri al contrario assai esaustivi: per fare un esempio, a un anno dal lancio del programma (partito nel 2002) si contavano: 1.300 tecnici formati secondo i canoni del calcio europeo moderno dell’epoca, quasi 400 training camp, oltre 20mila giovanissimi avvicinati al football e 10 milioni di euro messi sul piatto. Oltre alla cooperazione del 70% del movimento calcio in Germania. Un progetto strutturato che, a occhio e croce, qualche dividendo alla Germania l’ha fruttato nei due decenni successivi; nel Belpaese, purtroppo, tanta grazia è nel breve periodo destinata a rimanere un’utopia. Alimentando ancora, purtroppo, amare lacrime di coccodrillo.

 

 

 

 

Michael Anthony D'Costa
Michael Anthony D'Costa
Nato a Roma nel 1989, si avvicina al calcio grazie all’arte sciorinata sui campi da Zidane. Nostalgico del “calcio di una volta”, non ama il tiki-taka, i corner corti e il portiere-libero.

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