Dodici anni senza mondiali

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Noi come la Cecoslovacchia, la Danimarca e la Grecia. Noi, fuori dal mondiale da campioni d’Europa. Noi, fuori dal massimo torneo per nazionali per la seconda volta consecutiva. Noi, sesti nel ranking Fifa (che sia utile o meno giudicate voi) messi k.o. dalla squadra che staziona al posto numero 67. Noi, come quel 13 Novembre 2017 contro la Svezia, quando pensavamo che la spaccata nazionale in mano a Gian Piero Ventura avesse toccato il punto più basso della storia azzurra dopo la Corea nel 1966. E invece, siamo stati capaci di scavare.

Anche se c’è una differenza tra quel fracasso d’autunno e questo di primavera. Benché le divisioni tra FIGC e Lega Calcio ci fossero anche allora, furono i contrasti nel gruppo squadra – e tra la squadra e l’allenatore – a devastare il percorso qualificazione. Stavolta, invece, con un CT assoluto guru di un gruppo che solo otto mesi fa saliva sul trono d’Europa e che segue Mancini fedelmente, appare più evidente la riflessione sulla rottura tra federazione e club. Perché il prodotto-calcio italiano è in crisi, come mai nella storia. A furia di farsi la guerra dei mondi, non brilla l’azzurro e brillano ancor meno le squadre del nostro campionato. Non si vince una Champions League da 12 anni, per capirci. Due le finali giocate, dalla Juventus. L’Europa League? Mai vinta, non sappiamo nemmeno cosa sia. Una sola finale raggiunta, dall’Inter. La Serie A è un campionato vecchio, logoro. Si gioca in stadi datati. Con squadre che spesso non hanno ricambi generazionali all’altezza. Non serve ripescare l’inutile retorica del “prima gli italiani”, perché sarebbe sgradevole eticamente e politicamente, oltre che richiamerebbe a personaggi di dubbia onestà intellettuale. Serve, però, rivoluzionare il calcio italiano. Nelle formule, nelle sostanze, nella mentalità.

L’intensità delle nostre gare è ai minimi storici, 52’ 93” minuti di tempo effettivo di media di gioco a partita con Genoa-Udinese, fin qui, picco negativo a soli 39’ 50” minuti disputati. Siamo dietro a Liga, Ligue 1 e Premier League, modello di riferimento ormai costante per fare dei parametri. Il VAR interviene troppo e male, i giocatori vnno giù terra troppo e male. Non c’è una causa più di un’altra: tutte queste contribuiscono a creare un movimento italiano di scarsa qualità. Le ultime parole del CT dell’Under 21, Paolo Nicolato, sono agghiaccianti: “Tra poco, gli Azzurrini, dovremo andare a cercarli in Serie C”. Già, perché negli organici delle squadre di Serie A ci sono appena 2,7 giocatori italiani U21 in media per squadra. I titolari? Lo 0,43%. Minutaggio? 4%. Quei pochi che giocano, subentrano oltre il 70’, spesso a gare già chiuse.

I talenti, in sostanza, non giocano. I mezzi giocatori esotici sì. E se proprio non vogliamo prendere ad esempio l’Inghilterra, allora andiamo in Germania, dove fu la Bundesliga stessa ad aiutare la federazione a ricostruire il proprio patrimonio interno dopo il fallimento di Francia ’98 prima e del mondiale casalingo del 2006 poi. In Italia, la Nazionale sembra non fregare a nessuno, tranne quando vince. Interessa molto di più la SuperLega, per sopperire a debiti che gli stessi club hanno accumulato con gestioni sconsiderate, litigando con l’UEFA che non è meno avida. Con chi Roberto Mancini è andato a giocarsi la qualificazione a un campionato del mondo? Con João Pedro – attaccante di un Cagliari che lotta per la salvezza – con Berardi, Scamacca e Raspadori, che sono alfieri del Sassuolo, non certo della Juve o del Milan o del Real Madrid. Forse poteva esserci Mario Balotelli, che è finito ai margini del calcio europeo (gioca con l’Adana Demirspor in Turchia e che comunque, visto l’andazzo, resta l’attaccante tecnicamente più dotato). C’è qualcosa che evidentemente non va. E stona ancor di più con il titolo europeo ancora fresco nei nostri occhi. Negli otto mesi successivi, abbiamo vinto soltanto due partite. Due, di cui una inutile contro il Belgio nella final-four di Nations League. L’altra, a Reggio Emilia, con la modesta Lituania, regolata 5-0.

Eppure, eppure… nella mediocrità abbiamo avuto la qualificazione nelle nostre mani, panacea di un male profondo che avremmo messo ancora sotto il tappeto. Contro la Svizzera abbiamo sbagliato due rigori che ci avrebbero regalato il primato. Li abbiamo sbagliati con uno degli uomini simbolo dell’alloro europeo, quel Jorginho che anche nella sfida contro la Macedonia ha fallito l’appuntamento. La Luna stava cambiando, non ce ne siamo accorti. Ora sarebbe facile dire “torniamo al catenaccio”, ma non è quella la ricetta giusta. È il gioco efficace (non solo bello) a superare gli ostacoli più forti. All’europeo siamo stati efficaci, ora no.

Roberto Tortora
Roberto Tortora
Laureato in Scienze della Comunicazione, a Salerno. Master in Giornalismo IULM, a Milano; Giornalista professionista.

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