Kobe Bryant e la sua leggenda

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Il 15 giugno del 2004 Richard “Rip” Hamilton mette 21 punti, Ben Wallace 22 rimbalzi e i Detroit Pistons dominano secondo e terzo quarto per sconfiggere definitivamente i Los Angeles Lakers, squadra di semi-dei formata da Malone, O’Neal, Payton, Fisher, con il signor Phil “undici anelli” Jackson in panchina e Kobe Bryant a guidarli sul campo. Per capire quel trionfo nelle NBA Finals chiedere a Larry Brown, coach e unico componente dei Pistons di quel giorno nella Hall of Fame. Per capire come si sentì quella sera Robby Schwarz, invece, dobbiamo tornare indietro a quando Kobe aveva 17 anni.

Philadelphia, 1996. Allenamento a Lower Merion High, partitella 3 contro 3, transizione per il canestro della vittoria. Robby Schwarz è entrato in squadra da qualche giorno, Kobe la sta portando al titolo statale più ovvio nella storia dei licei americani. Rob e Kobe si ritrovano 2 contro 1, Kobe: “Oh, Rob, passa!”
Rob finta il passaggio ma fa di testa sua: lay-up, solo ferro, palla dall’altra parte e avversari vincenti. Kobe, secondo le cronache del tempo, passa 87 minuti a fissarlo. Anche durante la pausa, mentre bevono, lo fissa. In qualsiasi esercizio, lo fissa. Una specie di serial killer in mezzo ai quindicenni.
Settimana successiva, allenamento. Il coach chiama il due contro uno. Rob e un altro contro il solo Kobe. Schwarz imita i gesti dell’episodio sopracitato, quindi finta di passaggio e poi lay-up. Kobe prende posizione, cerca lo sfondamento, poi si butta per terra simulando chiaramente. Non riesce a fermare Rob, il cui lay-up stavolta termina nel canestro. Ebbro di gioia, Rob corre verso i compagni gridando, braccia in aria. Ha sconfitto Kobe, gliel’ha fatta sotto il naso. Gli amichetti non sono felici, sanno che Kobe gli farà pagare questa insubordinazione e l’errore di qualche giorno prima.
Rob si gira appena in tempo per vedere che Kobe, da una parte all’altra della palestra, ha destinato verso di lui un pallone che probabilmente lo manderebbe all’ospedale. Il piccolo Schwarz si abbassa ed evita la terapia intensiva.
Contestualizziamo: allenamento insignificante di un semi-dio e una manciata di ragazzini.

Quel 15 giugno del 2004 Schwarz è seduto sul divano di casa. Non è in NBA, mentre Kobe Bryant è diventato Black Mamba, probabilmente uno dei primi 10 cestisti di sempre e gioca con altri 4 o 5 che sono nell’arca della gloria NBA.
Rob vede Rip alzare il Larry O’Brien Trophy davanti al naso del suo amico Kobe e, come ha confessato lui stesso, non può che sorridere. Insomma, Robby Schwarz e “Rip” Hamilton hanno qualcosa in comune, aver fatto arrabbiare il Black Mamba. E un’altra cosa: Hamilton è coetaneo di Bryant, ha vissuto vicino a Philadelphia (Coatesville) ed era quindi uno dei molti che cadde davanti alla potenza della squadra del 1997 di Lower Merion High.


A questo punto vi starete chiedendo se forse le cronache sul Kobe Bryant ragazzino non siano esagerate. Non fidatevi di me, fidatevi di Shaq.
Nel suo libro O’Neal, uno a cui Kobe ha pestato molto i piedi in carriera, confessa cose pazzesche riguardo l’etica del compagno ai Lakers.
“Io arrivavo al palazzetto e c’era già lui sul parquet. Mi dicevano che lui arrivava tre ore prima di noi, e io lo vedevo che tirava e dribblava. Solo che non usava la palla. Giocava da solo, senza palla. Credo gli sia stato utile in carriera allenarsi così”.
Avete capito? Kobe Bryant si allena il doppio degli altri, e a volte inscena delle partite da solo, senza palla, scartando avversari immaginari che risiedono unicamente nella sua testa.
E attenzione perché il quadretto lo completa proprio lui, in un’intervista a ESPN di qualche anno fa. In quell’occasione dichiara che il primo giorno di allenamenti ai Lakers si chiese più e più volte se davvero gli allenamenti fossero tutti lì: capitelo, lui era abituato ad allenarsi dalle 5 del mattino alle 6 di sera al liceo. “Capii in quel momento di avere una cultura del lavoro superiore agli altri”.
Sì, superiore è il termine utilizzato, perché un’altra caratteristica di questa instancabile macchina da basket è la scarsissima ipocrisia. “Chiunque, mettetemi davanti chiunque e uno contro uno lo batto”. MJ? Incluso. LeBron? Nessun problema. Del povero Tracy McGrady dice che lo affrontò tre volte in un campo estivo quando aveva vent’anni. La terza partita non finì neanche perché T-Mac aveva spasmi muscolari alla schiena. E allora, visto che è così vero, ci fidiamo se ci dice che Jordan, Olajuwon, Magic, Bird e Kareem sono tutti meglio di lui, e che gli fa piacere quando viene accostato ad alcuni di questi.
Accostato? Come si vede in un incredibile video di confronto, Kobe si può muovere esattamente come Michael Jordan. Stessi passi, stessi palleggi, stessa dinamica di tiro. Come se Raffaello scimmiottasse Botticelli. Poi gli metti davanti il video e lui fa: “Che rimpianto essermi fermato a un metro e novantotto, con otto centimetri in più sarei stato uguale a Magic, non a Jordan!”. Insomma, questo ha scelto un giocatore della sua altezza e ne è diventato una copia. Fosse cresciuto ancora un po’, avremmo visto qualcuno di radicalmente diverso.


Basta Kobe, è troppo anche per noi. Ormai abbiamo convinto tutti che ami la palla tanto quanto hai dichiarato nella tua bellissima lettera con cui annunci il ritiro dal basket giocato. Ora ti stai allenando per fare ‘meno schifo’ in quest’ultima stagione, come hai detto te, e ci stai riuscendo.
Come dicevi in uno spot, coadiuvato dal regista Robert Rodriguez: “Gli eroi vanno e vengono, ma le leggende rimangono”.
E mentre la tua, di leggenda, scrive i suoi ultimi capitoli e il Black Mamba torna nella cesta ci sentiamo un po’ come quando una partita NBA spettacolare, magari di Playoff, va all’overtime, vede continui capovolgimenti di fronte, poi finisce con l’ultima sirena. Silenzio assordante, mentre le orecchie continuano a fischiare. Nella mente il ricordo dei volti di chi ha scritto la storia del basket, compreso quello di un diciassettenne che a Lower Merion High non perdonava nulla all’ultimo ragazzino arrivato in squadra.


 

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Dario Alfredo Michielini
Dario Alfredo Michielini
È convinto la vita sia una brutta imitazione di una bella partita di football. Telecronista, editorialista, allenatore. Vive di passioni quindi probabilmente morirà in miseria. Gioca a golf con pessimi risultati; ma d'altra parte, chi può affermare il contrario?

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