Giappone-Stati Uniti, quattro anni dopo

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Due partite ci separano dalla conclusione del Mondiale di calcio femminile. Canada 2015 si è rivelata un’edizione scoppiettante e non sono mancate le sorprese. Non tragga in inganno il fatto che USA-Giappone sia la replica della finale 2011, no: americane e giapponesi si sono sudate tutto, passando per quei risultati che non si vogliono sbloccare, sfruttando pure qualche episodio. Nel frattempo l’Australia aveva eliminato il Brasile (sin lì a punteggio pieno), con le scandinave delusione vera e il Canada fuori ai quarti nonostante il sostegno e i bagni di folla.

In fin dei conti, è giusto così. Il campo questo ha detto: premiata soprattutto la solidità difensiva delle due finaliste, insieme alla tenuta nervosa. Prendiamo il Giappone, per esempio: 6 vittorie in altrettante partite, tutte di misura. Nessuna goleada al contrario di Germania o Svizzera, ma sempre la concretezza, il pragmatismo. Certo essere campioni del mondo aiuta, in questi casi: sai di aver già dimostrato ad alti livelli chi sei, dove puoi arrivare. Non sei più una novità, e se questo fa mancare il fattore sorpresa, di certo fa tremare le gambe più agli avversari che a te: vedi il quarto con l’Australia, o la semifinale con l’Inghilterra.

Dall’altra parte le statunitensi, le campionesse olimpiche: è che l’oro iridato manca dal 1999 (vinto, guarda caso, contro una nazionale asiatica), e brucia tantissimo dopo il ko ai rigori a Francoforte, il 17 luglio di 4 anni fa. Allora i gol di Wambach e Morgan – presenti tuttora in rosa, seppure con gerarchie diverse – non bastarono a chiuderla nei 90′ e le Giapponesi, tenute in vita da Miyama e Sawa, diedero un piccolo motivo per gioire a un popolo trafitto e martoriato dal terremoto e maremoto di 5 mesi prima. Stavolta le americane erano le favorite, insieme alla Germania: vuoi per il fattore campo (il Canada non è lontano), vuoi per il record olimpico fuori dall’ordinario (4 ori e 1 argento su 5 edizioni), vuoi per la continuità a livello di Coppa del Mondo nonostante gli anni di digiuno (sempre almeno in semifinale, dalla concezione del torneo in poi). Ma il Giappone c’è, lo conosciamo, s’è tenuto in piedi con le unghie e con i denti, pure quando il possesso palla sembrava sterile, pure quando l’Inghilterra è sembrata averne di più: tabellone alla mano, viste Germania, Stati Uniti e Francia tutte sullo stesso lato dopo la fase a gruppi, non avremmo potuto sognare finale migliore.

In attesa dell’appuntamento decisivo (all’1:00 italiana nella notte tra domenica e lunedì), occhio anche alla “finalina” di consolazione, stasera alle 22. È la partita che nessuno vuole giocare, ma dà fregio a bacheca e curriculum: in particolare alle inglesi, reduci dal primo approdo in semifinale della loro storia, interesserà la terza piazza, anche se non sono da valutare le ripercussioni di una sfida persa al 92′ su autogol, quando tutto era apparecchiato per i supplementari.

Se l’errore/sfortuna di Laura Bassett non ha fatto altro che certificare che la romantica sfortuna delle selezioni di Sua Maestà non fa discriminazioni di genere, Germania-Inghilterra non è mai una partita qualunque: senza scomodare impropri paragoni con la guerra (e altre cose che con lo sport non hanno a che vedere), la mente va a Wembley nel 1966, a un guardalinee sovietico, ma anche a tutte le volte in cui “alla fine vincono i tedeschi”. Anche a livello femminile, per restare in tema: a parte la pionieristica edizione dell’Europeo 1984 (chiuso al secondo posto),  le Lionesses hanno raggiunto una finale internazionale solo nel 2009. Perdendola indovinate con chi?

Matteo Portoghese
Matteo Portoghese
Sardo classe 1987, ama il rugby, il calcio e i supplementari punto a punto. Già redattore di Isolabasket.it e della rivista cagliaritana Vulcano, si è laureato in Lettere con una tesi su Woody Allen.

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