Villiam Vecchi, il Milan degli anni ’70 e Manchester

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Villiam Vecchi, portiere del Milan nella prima metà degli anni ’70 (ma era già in organico, come vice di Cudicini, fin dalla stagione 1967/68, dopo aver fatto tutta la trafila nelle giovanili rossonere), ha avuto forse più fortuna come allenatore dei portieri che come giocatore. Tuttavia, pur da riserva, vinse tutto con il Milan di Nereo Rocco. E, da titolare, difese la porta nella notte di Salonicco contro il Leeds, quando i rossoneri ottennero il loro ultimo trofeo internazionale prima dell’avvento, nel decennio successivo, di Silvio Berlusconi.

In quel Milan, Vecchi restò 10 stagioni, come allenatore dei portieri, prima di passare, dopo una parentesi negli Allievi, al Real Madrid, assieme al conterraneo Carlo Ancelotti, dove rimase sino al 2015, per poi tornare in Emilia, nella sua Reggio, come supervisore, sino al 2018 e dove, oggi, è spirato, all’età di 73 anni.

Questa, in poche parole, la carriera del giocatore, ricostruita attraverso i tradizionali siti di statistiche. Poi ci sono i nostri ricordi personali, di quel Milan, e non solo. Perché, in quegli anni, la storia del calcio italiano si fondeva con quella, altrettanto difficile, della Nazione. E, se è vero che quell’epoca vide il dominio in Europa del calcio estero (prima l’Ajax, poi il Bayern Monaco ed infine le inglesi), è anche vero che il calcio italiano, pur penalizzato dal divieto d’ingaggio dei giocatori stranieri, introdotto nell’estate del 1966, raggiunse due volte la finale della massima competizione europea, e si aggiudicò la Coppa delle Coppe con il Milan nel 1973 e la Coppa UEFA con la Juventus nel 1977.

Il Milan, che a fine anni ’60 aveva vinto tutto, si poneva come obiettivo, nel decennio successivo, la vittoria del decimo scudetto, per potersi fregiare della stella, che già brillava sulle maglie delle rivali tradizionali Juventus e Inter. Per farlo, dopo la fine dell’era Carraro, si cercò di rinnovare la squadra, costruendola attorno al capitano Gianni Rivera. In porta, nel 1972, si chiuse l’era di Cudicini, peraltro arrivato a Milano in età ormai avanzata (nel 1967, a 32 anni).

L’estremo difensore triestino, che stava sviluppando interessi esterni al calcio, nel 1972 appese i guantoni al chiodo, al termine di una stagione che vide i rossoneri vincere la Coppa Italia, ma secondi in campionato, staccati di un solo punto dalla Juventus, laureatasi campione d’Italia. Ma fu anche l’anno della maxi squalifica a Rivera (da metà aprile a fine giugno) per alcune pesanti dichiarazioni contro gli arbitri rei, a suo dire, di aver danneggiato il Milan, e del lungo stop per malattia di Roberto Bettega che, nel vittorioso scontro diretto a San Siro, aveva segnato con un superbo colpo di tacco.

L’anno prima era stata l’Inter a beffare i rossoneri, in rimonta. Insomma, la Stella sembrava essere una vera e propria maledizione per la squadra meneghina e i suoi tifosi. E, nell’estate 1972, si aggiunse anche la necessità di sostituire Cudicini tra i pali. Si decise per una soluzione interna: già da anni, all’ombra del Ragno Nero, erano cresciuti due ottimi portieri, Pierangelo Belli e, appunto, Villiam Vecchi (e non William, come si potrebbe pensare: ma erano i miracoli delle anagrafi emiliane del secondo dopoguerra).

Il Paròn puntava su Belli, che era stato titolare nella vittoriosa finale di Coppa Italia con il Padova nel 1968, e si era già guadagnato i galloni da titolare, salvo essere poi messo in panchina dal più esperto estremo difensore triestino. Quando sembrava essere arrivato il suo momento, il portiere brianzolo (è nato a Limbiate) si vide però sorpassato nelle gerarchie, ancora una volta, da un altro giocatore, questa volta con il suo stesso trascorso (anche Vecchi era cresciuto nelle giovanili del Milan).

Il giovane emiliano divenne così titolare, in una delle annate più drammatiche (dal punto di vista sportivo) della storia del club, diventato nel frattempo di proprietà di Albino Buticchi. La stagione 1972/73 vide infatti la società (all’epoca) di via Turati vincere la Coppa delle Coppe e la Coppa Italia (in finale, ai rigori, contro la Juventus: Vecchi respinse i tiri di Anastasi e Bettega), grazie anche agli interventi decisivi dell’estremo difensore, cresciuto nel vivaio. I milanesi, però, dovettero lasciare scudetto e Stella ai rivali bianconeri, al termine di una stagione vissuta da protagonisti di una cavalcata stupenda, ma che li vide disarcionati nella Fatal Verona, della quale si è parlato molto anche quest’anno, forse a sproposito. Ma questa è un’altra storia.

Come andarono le cose in seguito è noto, perlomeno agli appassionati e a chi, come noi, ha i capelli grigi, e quegli avvenimenti li visse di persona, a colori, quando la televisione era in bianco e nero. Furono anni complessi, sotto il punto di vista sportivo e societario, e Vecchi venne inserito nella trattativa che portò Ricky Albertosi in rossonero, nell’estate del 1974, lasciando qualche rimpianto a chi lo aveva visto volare in quella stagione magica, quanto sfortunata nel suo epilogo. Perché, sia chiaro, in quegli anni (e anche oggi) lo Scudetto contava di più della Coppa Italia, e di tutto il resto, a meno che il resto non fosse la Coppa dei Campioni, ovviamente. E chi dice il contrario, sa di mentire, prima di tutto a sé stesso. Ma anche questa è un’altra storia.

I destini di Villiam Vecchi e del Milan si sarebbero incrociati ancora, nel nuovo millennio. C’era lui, al fianco di Nelson Dida, quella sera a Manchester, nel 2003. Davanti a loro, le maglie bianconere, come quella sera dell’estate del 1973, a Roma. Quelle maglie bianconere che, 30 anni prima, si erano cucite uno scudetto che Villiam pensava fosse già suo. Quelle maglie bianconere che lui aveva fermato, nella medesima circostanza, anche se in un contesto molto meno importante (la Coppa Italia, appunto).

Villiam si appartò con Nelson, quella sera del 28 maggio 2003. Gli sussurrò nell’orecchio qualche parola. Guardarono verso la curva occupata dai tifosi del Milan, e videro due ragazzi di allora, ormai cresciuti. Che erano a Verona, nel 1973. Villiam (e non William) li riconobbe, li salutò col pollice alzato, li rassicurò. Quella sera sarebbe andata diversamente, come a Roma. Sorrise. Il resto, fa parte della storia del calcio. Grazie, Villiam, e a presto: uno di quei due ragazzi cresciuti è già lì dove sei arrivato, porta un impermeabile chiaro, lo riconoscerai facilmente. Come quella sera, in Inghilterra.

Silvano Pulga
Silvano Pulga
Da bambino si innamorò del calcio vedendo giocare a San Siro Rivera e Prati. Milanese per nascita e necessità, sogna di vivere in Svezia, e nel frattempo sopporta una figlia tifosa del Bayern Monaco.

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