Il Camerun, la guerra civile, la Coppa d’Africa, il silenzio dell’Occidente. Intervista a Luca Attanasio

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Da pochi giorni, la Coppa d’Africa è entrata nel vivo, pur senza particolare attenzione sul piano mediatico. Si è discusso a lungo sull’opportunità di giocare questa competizione, anche alla luce della situazione sanitaria, ma soprattutto ci si è concentrati per mesi su quali “perdite” avrebbero avuto le società sportive europee lasciando partire i propri giocatori convocati. Abbiamo riempito i giornali con le intricate vicende di Osimhen del Napoli o con calcoli astrali su come avrebbe giocato questa o quell’altra squadra per qualche settimana.

Il dibattito, però, si è esaurito alla dimensione più esterna, di superficie, ignorando tutto il resto, come spesso accade quando si parla di eventi non legati al mondo occidentale. Per esempio, ci si è dimenticati di parlare della realtà in cui si svolgerà questo torneo, perdendo un’enorme opportunità per fare luce sulla situazione di un lembo di terra di cui non si sta parlando: un Camerun dilaniato da una guerra civile interna che sta provocando centinaia di migliaia di morti e quasi un milione di profughi, ma che nella stampa europea non sembra trovare spazio. Non è un caso che una delle immagini simbolo del torneo sia quella della mascotte ufficiale del torneo, Mola, che gira per strada a Bamenda, nel Nord ovest del Paese, circondata da militari e con addosso il giubbotto antiproiettile.

Ne abbiamo parlato in esclusiva con Luca Attanasio, giornalista (in collaborazione con Domani, Vatican Insider, Atlante, Confronti e Agenzia Fides), docente in Master in Peace-Building Management di II livello alla Pontificia Università Teologica San Bonaventura e scrittore specializzato in geopolitica, vaticanismo, fenomeni sociali e migratori. Tra i suoi maggiori interessi ci sono delicate aree del mondo come l’area MENA (Middle East and North Africa) e l’Africa Subsahariana e proprio giovedì 5 gennaio aveva pubblicato un articolo su Domani riguardante la situazione attuale in Camerun. Una delle pochissime voci in Europa su questo argomento, in un panorama confermatosi desolante, sul piano mediatico, quando si tratta di parlare delle vicende di tutto ciò che non è Occidente.

In Europa, si è parlato di Coppa d’Africa e di Camerun di fatto solo per il Covid e per le lamentele delle società che hanno lasciato partire i propri tesserati decisamente contrariate. Lei, invece, ci mostra un Paese ben diverso, definendolo un “continente nel continente”: che cosa intende?

È una definizione che fa riferimento alle tantissime lingue parlate nelle diverse zone del Camerun, tra cui ovviamente anche il francese e l’inglese, che segnano da vari anni anche una divisione profonda e una situazione di conflitto tra le regioni del Nord Ovest e il resto del Paese. In più, si riferisce all’eterogeneità della società camerunese, anche ai suoi gruppi etnici. Viene definito, usando una di quelle formule a volte un po’ generiche quando si parla di alcuni Stati, come “un’Africa in miniatura”.

Domenica scorsa è così cominciato un torneo internazionale, targato FIFA, in un Paese da anni travolto da una guerra civile, di cui però non si sa nulla…

Attualmente sono in corso vari conflitti che perdurano da decenni e, purtroppo, una penetrazione di stampo jihadista in Camerun che sta rendendo tutto più complicato. La situazione più complessa, però, è legata appunto a una guerra civile de facto tra la parte anglofona nelle regioni occidentali, al confine con la Nigeria, e la parte francofona e francese del resto del Paese. Mi permetto di fare una parentesi.

Prego.

Questi conflitti sono quelli che io definisco come le infinite scorie lasciate dal colonialismo, destinate a durare per secoli e forse millenni, di cui l’Africa purtroppo non si libererà. È una denuncia, più che una constatazione dei fatti, visto che l’Europa continua a mantenere un atteggiamento colonialista nei confronti dell’Africa oppure di sganciamento, chiudendosi in sé stessa e non favorendo un minimo di accoglienza e comprensione verso chi lascia l’Africa, soprattutto per problemi creati dall’Europa stessa.

Da dove nasce questa guerra civile?

Il Camerun, fino alla prima guerra mondiale, era uno Stato di competenza tedesca. Terminato il conflitto, è stato spartito in due parti: una di interesse inglese, nella zona più vicina alla Nigeria, pari a circa il 20-22% del territorio di questo Paese; l’altra, nel rimanente 80% circa, francofona e francese. Per decenni, la parte cosiddetta anglofona ha vissuto come se fosse stata una Regione inglese: per lingua e sistema scolastico, legislativo, giuridico e politico. Dall’altra parte, invece, c’era una cultura più vicina a Parigi. A un certo punto, i problemi sono venuti al pettine. Nel 2016, dopo tanti attriti e denunce da parte dei cittadini e i rappresenti politici delle Regioni anglofone di subire forme di discriminazione e sottosviluppo generalizzato a scapito delle zone francofone, un gruppo di politici irredentisti ha deciso di armarsi e di dichiarare indipendente il loro territorio come Repubblica di Ambazonia. Questo ha significato anche arrivare alla costituzione di un governo e un parlamento autonomo, ma soprattutto ha segnato l’effettiva entrata in guerra tra l’esercito delle regioni anglofone (i cosiddetti Amba Boys) e le truppe inviate dal presidente Paul Biya, che non poteva tollerare tale situazione.

E la situazione ora sembra essere complessa, nonostante la scarsa copertura mediatica…

Dal 2017 si è così sviluppato un conflitto terribile, di dimensioni enormi se si considera tra l’altro che il Camerun è un Paese non grandissimo. Eppure, sono già morte decine di migliaia di persone e siamo vicini a raggiungere il milione di profughi sia interni che esterni, destinati a scappare in Nigeria o in zone più tranquille. Bamenda, per dire, è sotto assedio da tempo, anche se la situazione recentemente si è riappacificata, ma intendiamoci: è una tregua mascherata. Da fonti dirette, tra cui l’arcivescovo cattolico di Bamenda che è stato uno degli attori principali dei processi di pace, so che gli Amba Boys hanno intensificato gli attacchi agli obiettivi militari. E i soldati rispondono uscendo dalle caserme e iniziando a incendiare edifici e a sparare contro la popolazione civile, che viene incolpata di favoreggiamento e di coprire gli irredentisti. Le scuole sono state chiuse per tanto tempo e ora, al di là di lockdown e covid, sono aperte al 60%. La vita procede come se si fosse in una società in conflitto permanente, ma che ha voglia di superare questo momento. Per dire, mi è stato raccontato che il Natale è stato celebrato come se si fosse in una situazione normale, anche se normale non è: persone che andavano in chiesa o dove desiderava per festeggiare. La gente vuole dire basta, anche i cittadini favorevoli all’indipendenza non ne possono più: le atrocità commesse dall’esercito e anche dagli indipendentisti, che poi si tramutano a volte in terroristi, sono terribili. Quello che mi colpisce è che tutto ciò va avanti, nella totale indifferenza della comunità internazionale.

Ha fatto discutere la scelta di giocare le partite in zone di conflitto, come Limbe, Bafoussam e Douala, ritenute molto pericolose anche per la sicurezza di calciatori, tifosi e addetti ai lavori. Qual è la situazione di queste zone? E che conseguenze può avere la potenziale presenza di autorità statali negli stadi di questi territori?

La Coppa d’Africa è una vetrina potenzialmente incredibile per chi, tra indipendentisti e civili, vorrebbe far uscire questo conflitto dall’anonimato più totale. Tanti anni fa, quando mi ritrovai a trattare il conflitto dell’Irlanda del Nord, feci diverse interviste a Belfast e quello che mi colpì da ciò che emerse da questi incontri e gli archivi è che negli anni ’70, l’IRA alzò il tiro e cominciò con attentati di enorme portato proprio perché fino a quel momento erano stati sostanzialmente ignorati, sebbene pure in precedenza ci fossero stati grossi problemi. In Camerun ci saranno i riflettori di tutto il mondo, giornalisti provenienti da ogni parte del pianeta e ho il timore che in alcune zone l’attenzione sarà alta. Le autorità politiche sono un bersaglio perfetto in questo senso. Basti pensare che soltanto due mesi fa il convoglio del primo ministro del Camerun ha subito un attacco dagli irredentisti mentre era in visita a Bamenda. Anche se non ci sono stati morti o feriti, ci si rende conto che è un gesto di grande impatto e che è sintomo di una situazione di notevole tensione. Spero che questa Coppa d’Africa sia un’occasione più positiva che negativa, ma di rischi ce ne sono.

Motsepe, presidente della CAF, ha incontrato lo scorso 22 dicembre Biya a Youndé, in un estremo tentativo di impegnare il capo di Stato camerunese ad annunciare il cessate il fuoco durante il torneo in vista di una pace duratura. Di fatto, però, l’incontro ha avuto esiti piuttosto scarsi: si è parlato di misure anti-Covid e poco altro. Siamo sicuri che eventi di questo interesse a livello internazionale possano realmente portare dei cambiamenti interni nei Paesi ospitanti?

Io ho molta fiducia nell’idea dello sport come veicolo per messaggi di riconciliazione, pace e soprattutto sviluppo. Sottolineo quest’ultimo aspetto perché è tanto più fondamentale in luoghi in cui la situazione è più precaria. Guardo a questa competizione con grande interesse, da tifoso di calcio: sono felice che si sita alzando il livello, oggi ci sono alcuni dei giocatori già forti al mondo. Io parto da un presupposto, però: l’Africa va decolonizzata nella nostra mente. Noi siamo continuamente influenzati da una narrativa, da concetti con cui dobbiamo fare i conti. Cultura, musica, teatro e sport aiutano a uscire dall’immaginario collettivo che vede l’Africa come un calderone di gente tribale, che si cannibalizza e vive in guerra permanente. Invece, ci possono essere mostrate società sviluppatissime, economie che viaggiano a ritmi incredibili. Al netto dei rischi legati a potenziali episodi di violenza, che sarebbero chiaramente preoccupanti, credo valga la pena provarci con queste iniziative.

Rispetto al Camerun, lei parla di un “futuro incerto”, assumendo dei toni piuttosto pessimistici però. Cosa rischia di attendere questo Paese, una volta che i riflettori si saranno spenti?

I toni pessimistici sono dovuti al fatto che una crisi così grave non sia sotto i riflettori di nessuno. Ti cito l’ultima intervista che ho fatto a San Pietro quando è venuto l’arcivescovo di Mabenda. Lui mi ha detto: “voi scrivete tutti i giorni di quello che accade in Afghanistan, Siria, Ucraina e fate bene; ma possibile non sia dedicato nemmeno una riga a questa situazione, in cui ogni giorno si presenta un attentato grave, un morto, rapimenti?”. Se questa Coppa può essere l’occasione per portare finalmente un po’ di questi riflettori sulla situazione del Camerun, in vista di un futuro con maggiori diritti, allora ben venga questa iniziativa. Ma a oggi non mi faccio illusioni.

 

Francesco Moria
Francesco Moria
Nato a Monza nel '95, ha tre grandi passioni: Mark Knopfler, la letteratura e il calcio inglese. Sogna di diventare giornalista d'inchiesta, andando a studiare il complesso rapporto tra calcio e politica.

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