Forse Zidane è bravo sul serio

-

È un allenatore professionista da meno di un anno, Zinédine Zidane. Ha però già vinto due titoli: sono tantissimi, se si considera da quanto tempo è in attività. E in tutto ciò non parliamo nemmeno della qualità dei trofei vinti (entrambi a livello europeo anche se – fatalità – sempre contro squadre spagnole) né delle difficoltà che comporta farlo quando si è il tecnico del club più importante del mondo.

È fuori di dubbio che un allenatore conti (e neanche poco) nell’economia dei risultati di una squadra di calcio – chiunque lo negasse o non capisce niente oppure è in malafede -; è altrettanto chiaro che allenando il Real Madrid il materiale umano a disposizione è sempre eccellente, tendenzialmente. Ma poi questo materiale umano va amalgamato e trasformato in un’unità che riesca a esprimere una sua ratio prima ancora che un suo gioco. E per farlo esistono moltissime strade diverse, non tutte efficaci allo stesso modo. Non tutti ci riescono.

Diciamoci la verità: quando Zidane ha assunto l’incarico affidatogli da Pérez sembrava fosse una soluzione provvisoria per chiudere l’anno e lui, nonostante i buoni risultati messi assieme fin dall’inizio, non è che si sia distinto per innovazioni particolari o soluzioni geniali. L’ex trequartista francese ha sostanzialmente rimesso al centro del suo piccolo villaggio blanco il mediano Casemiro per assicurare un maggior equilibrio alla sua formazione (rispolverando una soluzione già vista con Benítez ma alla quale ha potuto attribuire più forza perché in possesso di una corsia preferenziale nel rapporto con la dirigenza merengue, cosa di cui non godeva il buon Rafa). Per il resto non ha rilanciato né Isco, né tantomeno James Rodríguez, come invece si aspettava chi credeva nell’assioma “un trequartista amerà per forza gli altri trequartisti”. Le sue vittorie sono state frutto di una ferrea consequenzialità, molto pragmatica.

Quest’anno invece, visto che non si deve più preoccupare del ritrovare e mantenere un equilibrio precario (che forse non c’era mai nemmeno stato, con Benítez), il nostro vecchio Zizou ha potuto dedicarsi anche a costruire qualcosa di nuovo, a gettare delle fondamenta e a reinserire negli schemi alcune variabili forse troppo instabili l’anno scorso per essere considerate. Mantenendo però la sua cifra di allenatore estremamente pragmatico, una cifra che stride accanto alla nostra immagine preconfezionata di lui perché, se si paragona lo Zidane della panchina al numero 10 che invece deliziava le platee in campo, è quasi difficile riconoscere lo stesso modo di ragionare.

Ieri sera, pur in emergenza, pur dovendosi scontrare contro un avversario motivatissimo e per certi versi pure bestia nera di questi ultimi anni, pur ritrovandosi con i postumi della pausa per le Nazionali, il Real Madrid è riuscito a sconfiggere i rivali cittadini dell’Atlético utilizzando proprio alcune delle armi tipiche dei Colchoneros. Pressing martellante, agonismo sfrenato, ricerca ossessiva del contrasto e della lotta fisica per la conservazione/sottrazione del possesso palla. In casa loro. Ci è voluto coraggio e una certa dose di iconoclastia, specie considerando quella falange mai doma di tifosi e opinionisti madridisti che ritengono il Real Madrid degno di essere chiamato tale solo quando si esprime in punta di fioretto.

Peraltro andare al Calderón senza centravanti (schierando un attacco molto leggero con Isco a tratti addirittura posizionato da falso nove) è stato un altro atto coraggioso, anche se meno blasfemo. Vero che Benzema non era al meglio però un conto è immaginare di rinunciarci, un altro è farlo sul serio credendo fino in fondo a un sistema che prevede un solo attaccante di ruolo in campo. D’accordo, quando hai Cristiano Ronaldo forse un ariete non è così indispensabile però lo stranissimo albero di Natale un po’ sbilenco con Bale e Isco dietro CR7 ha funzionato a meraviglia, consentendo ai Blancos di chiudersi a riccio e battagliare in mezzo al campo esattamente come voleva Zizou, che ha quindi battuto il Cholo sul suo terreno.

Chiariamolo subito: non è osservando una sola partita che si possa cambiare un’opinione su un allenatore o, peggio ancora, costruirla. Specie se il mister è nel giro da così poco. E non è questione di derby o non derby. Però oltre ai successi della stagione passata, quest’anno siamo di fronte a un Real primo in Liga a +4 dal Barça e +9 sull’Atleti, che non perde da febbraio (in tutte le competizioni), e che negli scontri diretti ha sempre dimostrato di avere più vite di un gatto, sia in campionato sia nelle coppe. Gli elementi non sono ancora sufficienti ma sono già indicativi per formulare un primo giudizio.

Probabilmente il francese non ha la visione di un Guardiola, non ha l’ars mentale di Mourinho, non ha la calma olimpica di Ancelotti o il carisma animale di Simeone ma, a questo punto, si può anche provare ad azzardare che Zinédine Zidane non è quel miracolato che poteva sembrare giusto qualche mese fa, bensì un buon allenatore.

Quanto buono ancora non lo sappiamo con precisione perché abbiamo bisogno di altro tempo per una valutazione più completa; intanto però sappiamo che è il tecnico perfetto per il contesto in cui si trova in questo momento. È un uomo della società, apprezzato dal presidente e dai dirigenti per la lealtà dimostrata alla causa negli anni. Nel contempo però, a causa del suo passato glorioso, conserva un enorme ascendente sui suoi giocatori e le sue scelte tattiche sono sufficientemente accessibili perché tutta la rosa possa apprezzarle e metterle in pratica senza problemi.

Proprio da qui possiamo capire che la sua maggiore forza in ambito tattico è il buon senso: non inventa niente, non parte per la tangente, non si lancia in esperimenti assurdi ma – anche quando esce dal seminato – riesce a trovare un abito tattico tanto adatto alle caratteristiche dei suoi uomini quanto lineare, riuscendo ad assegnare ai giocatori dei compiti che questi sono quasi sempre in grado di assolvere.

Lo Zidane allenatore non è ancora del tutto svelato, dicevamo. Però possiamo già ipotizzare che sarà una realtà con cui dovremo fare i conti abbastanza lungo nel prossimo futuro e che non sarà un fuoco di paglia destinato a bruciarsi nel giro di un amen (come fin troppi altri allenatori della sua generazione). La tentazione di bollarlo come ennesimo enfant prodige destinato a brillare qualche mese per poi scomparire alla prima difficoltà era fortissima, già subito dopo la conquista della Coppa dei Campioni. Ma attualmente i fatti dicono il contrario, per sua fortuna. Che riesca a fare da allenatore tutto ciò che gli è riuscito da giocatore è francamente difficilissimo. Però è anche vero che se ha inseguito la Champions League per anni prima di vincerla quando ancora giocava, da allenatore, per prima cosa, si è invece tolto lo sfizio di vincerla. Che abbia addirittura iniziato questa sua seconda carriera meglio della prima?

Giorgio Crico
Giorgio Crico
Laureato in Lettere, classe '88. Suona il basso, ascolta rock, scrive ed è innamorato dei contropiedi fulminanti, di Johan Cruyff, della Verità e dello humour inglese. Milanese DOC, fuma tantissimo.

MondoPallone Racconta… Il calcio a Tahiti

Tahiti, conosciuta anche come Polinesia Francese, è salita improvvisamente alla ribalta internazionale grazie alla partecipazione alla Confederations Cup 2013. Una presenza meritata, visto il...
error: Content is protected !!