Lo sport strano

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Strano lo sport quando si mischia ad altri argomenti.

Molto più seri, come guerre, odio fra popoli, retaggi del passato.

A volte, è questione di buonsenso, verrebbe da dire fermiamoci.

Calmi, parliamo, parliamone.

Ricordiamo che è solo sport ed è una delle cose più belle del mondo.

È divertente, soprattutto.

Altre volte, invece, sport e politica, sport ed eredità del passato non possono che fondersi. Devono farlo, perché spesso questioni di identità e propaganda si servono o si sono servite dello sport come motore trainante. Mezzo di dibattito ma soprattutto di ricerca del consenso: penso alla Germania nazista e all’Italia fascista, ma anche ai regimi dell’est e mi fermo per ragioni di spazio, non di opportunità.

Questa mattina, preparandomi per Italia-Sudafrica di rugby, mi è piaciuta tanto la pagina dedicata al test match dal Corriere dello Sport. Ha tutto, sugli azzurri e gli Springboks attuali: campo, politica, stanza dei bottoni.

Italiani di ieri e di oggi, oriundi, quote razziali, colored e meticci, boeri più o meno in imbarazzo.

È un modo opportuno, realistico e pragmatico di presentare un evento come quello del Franchi di oggi pomeriggio: è sport ma non può essere solo quello. Richiama questioni extracampo ma strettamente connesse con le attività delle due federazioni, col rugby union tutto.

Con ordine, alcune questioni toccheranno anche le corde di chi è solamente calciofili. Sto volutamente lontano da qualsiasi retorica, eppure mai come oggi a Firenze il rugby fotografa il momento di un paese.

Il capitano dell’Italia si chiama Sergio Parisse. Oriundo, lo avremmo definito in altre discipline; nato in Argentina da famiglia italiana, sente il tricolore come pochi nel mondo azzurro. Eppure, sono dietro l’angolo le polemiche su Eder, Jorginho e compagnia; l’equivoco è questo di avere una sola patria.

Doverne avere una sola.

Non sta in cielo né in terra, nel mondo del 2016, post immigrazione e post emigrazione.

Paolo Bona / Shutterstock.com
Paolo Bona / Shutterstock.com

Ho conosciuto, durante il weekend di rugby league internazionale, parecchi “Italiani d’Australia” che si definiscono italiani. Nati e cresciuti nel Queensland o nel New South Wales, hanno conservato e conservano l’identità di casa loro. La nostra, insomma: “sono un italiano nato a Brisbanemi ha detto qualcuno; a qualcun altro venivano gli occhi lucidi a parlare – anche in inglese – dei nonni, con espressione italiana. My nonno, my nonna, my nonni

…Ricordiamocene. Quando parliamo di oriundi. Bistrattiamo i figli e i nipoti degli italiani di ieri. Che, a sentir qualcuno, non potrebbero né dovrebbero vestir d’azzurro. Ci saranno senz’altro opportunisti che lo fanno solo per la gloria e per una chance internazionale, ma penso a chi è un buonafede e lo proteggerò sempre.

Dirò di più: una qualsiasi nazionale senza “oriundi” non avrebbe ragion d’essere. O sarebbe, è il minimo, incoerente con la vera storia di un paese come l’Italia, che ha vissuto una vera e propria “diaspora” e conserva, nelle varie comunità in giro per il mondo, un attaccamento alla “patria” ammirevole e ammirato. Non puoi volere, insomma, gli spalti di New York pieni di italo-americani a USA 1994 e allo stesso tempo non volere gli italiani di ieri in campo: botte piena, moglie ubriaca.

Oltre agli “italiani di ieri”, i “nuovi italiani”. Anche qui, tanti equivoci, un po’ di superficialità, xenofobia e una spruzzatina di razzismo. Non scomodo -molti leggeranno di mattina – i cori rivolti negli anni scorsi a Mario Balotelli circa l’italianità del colore della sua pelle – ma parlando di noi e degli altri sento ancora troppe perplessità e un approccio poco informato.

I nuovi italiani ci sono e meno male, aggiungo. Perché vuol dire che stiamo integrando, che la/le Nazionale/i è e sono espressione dello stato attuale del paese; anche perché poi è inutile non considerare nostri connazionali i figli di chi è emigrato ma poi neanche quelli di chi qua è arrivato con la speranza di una nuova vita.

In campo oggi contro il Sudafrica nello sport con la palla ovale, ma in tutti gli sport: italiani di ieri e di oggi. Meno male che ci sono.

Gli Springboks, poi. Solo chi è cresciuto in certe situazioni e in un un paese con il Sudafrica possiede tutti i dati per giudicarne le vicende. Storiche, coloniali e post, politiche e finanche sportive; perché qui dalla Sardegna mi vien male giudicare e rischio di essere opportuno. Ma mi ci provo, avrebbe scritto Montanelli: le quote razziali non mi piacciono proprio.

Ne capisco il retaggio e l’origine storica, la necessità di applicarne a un contesto come quello sudafricano. Eppure, sento che ha ragione chi dice che uno sportivo deve giocare in nazionale se e solo quando lo merita. E, in questo caso, quando è tra i 15 giocatori più in forma e validi del momento.

Puntare, con lo strumento dell’imposizione politica, al 30% ora e al 50% sul lungo periodo di colored in nazionale mi sembra voler prendere una scorciatoia. Non usare, come invece fece Nelson Mandela, lo sport per unire. Senza pensiero di razza, pelle, etnia e lingua.

Se la diagnosi è che, ancora oggi, a una categorie è sbarrato l’accesso a uno sport e ai suoi centri e metodi di formazione, occorre lavorare dal basso. Non calare, dall’alto, un provvedimento verticale e artificiale.

Questi i motivi di interesse, extracampo ma non solo, della partita di oggi.

Questo il bello di scrivere di sport.

Attività che, quando non va sul becero e collega sempre fatti e protagonisti, è la più bella del mondo.

Mi ci provo. 

Matteo Portoghese
Matteo Portoghese
Sardo classe 1987, ama il rugby, il calcio e i supplementari punto a punto. Già redattore di Isolabasket.it e della rivista cagliaritana Vulcano, si è laureato in Lettere con una tesi su Woody Allen.

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