Ciao Hachi, non ci mancherai

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Vedrete le vedove, oggi. Le vedrete sui social network, le incontrerete al bar sport, le ascolterete via radio, le guarderete in televisione. D’altra parte, nel calcio, le vedove sono sempre esistite: quando un calciatore cambia maglia – se ha fatto bene nel club da cui va via – lascia sempre dietro di sé uno stuolo di ammiratori delusi e amareggiati come groupie mandate in bianco da un gruppo rock dopo ore di appostamenti, persone dal cuore calcisticamente spezzato che rimpiangono fin da subito l’idolo che abbandona il suo nido originario per spiccare il volo chissà dove perché, nel migliore dei casi, “chissà quanto ci si metterà prima di trovare un altro così“.

Questo fenomeno socio-antropologico si verifica da sempre nel mondo del pallone, così pregno di emozioni intense e così favorevole per l’innamoramento sportivo tra i tifosi e i giocatori. La novità degli ultimi anni, invece, è che questo tipo di accadimenti non si verifica più solo nelle realtà di club ma anche a livello di nazionali maggiori: la globalizzazione porta a un sempre maggiore interscambio perché, oggi, una famiglia può decidere dove vivere sfruttando una mappa delle destinazioni possibili ben più ampia di quella che poteva essere anche solo una cinquantina d’anni fa. Il risultato è la creazione di comunità ed enclavi straniere nei Paesi ospitanti che, a poco a poco, fagocitano e integrano i nuovi arrivati nei loro usi e costumi man mano che passano le generazioni.

Come si può facilmente intuire, questo complesso processo conduce a una realtà intricata, in cui i calciatori, fin da giovanissimi, cercano di ottenere accesso a tutte le nazionalità cui il loro albero genealogico dà diritto per facilitare anche in questo modo “burocratico” la loro carriera. E non solo non c’è niente di sbagliato, sia chiaro, ma ogni tanto questa pratica ricorrente può far persino accadere che un giocatore, dopo essere stato naturalizzato, castighi da avversario proprio la Nazionale del Paese dov’è nato e cresciuto (ogni riferimento a Lucas Barrios e al suo Paraguay è puramente voluto). Generando anche storie romantiche, se vogliamo.

È questo il caso anche di Hachim Mastour, talentino del Milan che è nato a Reggio Emilia da una famiglia marocchina e che ha esordito ieri sera tra i Leoni dell’Atlante in un match ufficiale contro la Libia, valido per le qualificazioni alla Coppa d’Africa del 2017. In soldoni, questo significa che Mastour, calcisticamente – ma non solo – nato e cresciuto in Italia, vestirà fino al termine della sua carriera (quindi altri quindici, forse vent’anni) la maglia del Marocco e non giocherà mai in azzurro. E qui entrano in gioco le vedove di cui si diceva: scommettiamo che già da oggi i social network vomiteranno un’onda anomala di Cassandre redivive che prediranno a gran voce un avvenire dorato al giovanissimo Mastour e quindi onta e disonore imperituri all’Italia che s’è lasciata sfuggire un simile talento?

Ecco, il punto è proprio questo: in primo luogo dobbiamo abituarci a un simile scenario così come si sono abituati in Francia, Olanda, Belgio o Germania già da tanti anni. Negli ultimi decenni il nostro Paese ha accolto parecchie famiglie di migranti e, com’è logico, tanti dei loro figli hanno giocato a pallone con noi e ci sta che, una volta cresciuti, possano decidere di rappresentare la terra dei loro genitori e non quella in cui – pure – sono nati. Nel giro della nazionale marocchina, per fare alcuni rapidi esempi rimanendo tra i nuovi compagni di Mastour, ci sono giocatori come Amrabat, Achenteh, Labyad, Aissati, Mokhtar, El Hamdaoui o Tighadouini, tutti non solo nati e cresciuti in Olanda ma anche spesso e volentieri titolari nelle selezioni giovanili oranje che, quasi sempre, non trovando mai la via per la Nazionale maggiore, hanno optato per il Marocco per poter giocare così a livello internazionale. Assolutamente legittimo, peraltro.

Inoltre non bisogna dimenticare che il caso Mastour è decisamente estremo: il giovane Hachim, infatti, nonostante sia in possesso di un indubbio talento e sia uno dei calciatori minorenni più mediatici e chiacchierati della storia (se non il più mediatico e chiacchierato, perlomeno in Italia), non ha ancora dimostrato niente. Ma non niente nel senso che ha avuto poco spazio e pochi minuti, niente nel senso che non ha ancora nemmeno esordito tra i professionisti (!). D’altra parte Hachi compirà 17 anni solo domani, è anche comprensibile che non abbia giocato neppure un minuto sin qui, specialmente in una squadra importante (e non proprio in salute) come il Milan.

Dunque perché strapparsi i capelli per un giocatore che, a oggi, è semplicemente una mera promessa, per di più reduce da un’annata sfortunata in cui ha subito parecchi infortuni, ha galleggiato tra la Primavera e la prima squadra rossonere senza però trovare spazio né nell’una né nell’altra e ha infine perso la maglia dell’Italia giovanile (in cui pure aveva giocato a livello Under 16)?

No, davvero, amareggiarsi perché ora non potrà mai più giocare con l’Italia non ha alcun senso a prescindere da quanto forte Mastour possa diventare in futuro. Hachim ha fatto la sua scelta ed è già diventato il più giovane giocatore di sempre a vestire la maglia del Marocco, iniziando la sua storia coi Leoni con un record (che, come biglietto da visita, non è male e si spera possa portargli fortuna per la sua carriera).

Sinceramente mi interessano poco i complottismi di chi sostiene che il verdissimo talento rossonero abbia scelto i nordafricani perché, forse, s’è fatto fregare dalla fretta di arrivare, possibilmente anche aumentata dopo una stagione in cui ha giocato pochissimo e praticamente solo a livello giovanile, e che abbia accettato la “scorciatoia” di esordire col Marocco pur di continuare a far parlare di sé e di affacciarsi il prima possibile sulla scena del “calcio che conta”, così come non do troppa importanza anche alle sue dichiarazioni sul fatto che si senta più marocchino che italiano (non è affar mio).

Semplicemente, prendo atto della decisione e amici come prima, limitandomi a ribadire che non mi posso dispiacere se un quasi 17enne di origine straniera sceglie la Nazionale dei suoi genitori quando ha giocato lo stesso numero di minuti di Serie A che ho giocato io.

Ciao Hachi, buona fortuna col tuo Marocco. Non mi mancherai.
Ma non perché mi stai antipatico, anzi, ma perché non puoi proprio mancarmi.

Giorgio Crico
Giorgio Crico
Laureato in Lettere, classe '88. Suona il basso, ascolta rock, scrive ed è innamorato dei contropiedi fulminanti, di Johan Cruyff, della Verità e dello humour inglese. Milanese DOC, fuma tantissimo.

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