Lo scarso fascino dell’Europeo itinerante

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Saranno passati vent’anni, dal cucchiaio di Totti, le parate di Toldo, il guizzo di Trezeguet. Sedici, dalla figuraccia del 2004. Dodici, dall’Italia operaia di Donadoni e il quarto di finale a reti bianche con la Spagna (futura) campione.

Fra mondiali e tornei continentali, la storia delle gioie e dei dolori di qualsiasi nazionale acquista una patina linguistica particolare, dettagliata, marcata geograficamente. Paolo Rossi è Pablito, perché in Spagna si giocava. Tanti italamericani festeggiarono gli spumeggianti risultati (sino ai rigori) dell’Italia del 1994. La Francia era così vicina nel 1998, per molti, un treno e via…

No, nel 2020 non accadrà nulla di tutto questo. Certo, ci saranno sempre gli stadi della Champions League, ma come ufficializzato pochi giorni fa sarà un Europeo “itinerante”. Nessun paese ospitante, 13 città diverse, progetto Euro for Europe. Piacerà? Ai posteri la sentenza, ma le sensazioni sono grigie, di primo acchito.

Viaggiare è sognare, è muoversi e conoscere, è avere qualcosa da raccontare al rientro. Certo, viaggiare costa e, forse, un quarto di finale a San Siro invece che a Parigi costerà di meno al tifoso lombardo, ma siamo sicuro che 80mila persone riempirebbero la Scala del Calcio per un ipotetico Repubblica Ceca-Danimarca (quarto di finale a Euro2004)? Il rischio flop è dietro l’angolo. E già si sente il rumore delle unghie sugli specchi.

Il bello di una manifestazione internazionale è il progetto che c’è dietro, la scoperta della singola nazione ospitante. Del lavoro fatto dalla Rai nell’estate del 2010, vengono in mente i servizi sulle periferie sudafricane, su realtà di cui difficilmente i media occidentali parlano. Cosa rimarrà, con l’Europeo itinerante?

Nessuna lingua, ovvero tutte come fossero nessuna. Molti dettagli andranno snocciolati, ed è pur vero che problemi strutturali nell’organizzazione sono emersi un po’ troppo spesso negli ultimi anni (vedi i ritardi e le difficoltà nel rinnovo degli stadi), ma la transumanza perenne, senza un ritiro fisso prestabilito, senza una “casa azzurri”, con viaggi ogni tre giorni, sembra l’ennesimo colpo anche alle parti più genuine della tradizione.

Si vuole fare una versione della Champions League per nazionali. Dopo che tifosi e calciatori, specie nei top club, hanno viaggiato da Agosto a Maggio inoltrato, da una parte all’altra dell’Europa. De gustibus non est disputandum  e all’esperimento mancano 7 anni, ma l’inizio è davvero poco affascinante.

Matteo Portoghese
Matteo Portoghese
Sardo classe 1987, ama il rugby, il calcio e i supplementari punto a punto. Già redattore di Isolabasket.it e della rivista cagliaritana Vulcano, si è laureato in Lettere con una tesi su Woody Allen.

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