L’Arsenal ha dimostrato che inginocchiarsi contro il razzismo non è affatto una semplice abitudine

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L’immagine dei giocatori dell’Arsenal inginocchiati, similmente a quanto accade da ormai quasi un anno in tutte le gare di Premier League, davanti a quelli dello Slavia Praga in piedi e abbracciati ha già fatto il giro del mondo. E tanto se n’è parlato, attribuendo significati più o meno profondi alla scelta dei Gunners di osservare quella che da diverse persone è considerata come una noiosa e vuota abitudine da osservare prima del calcio d’inizio. Non ci sono certezze nemmeno sulla volontarietà delle disposizioni in campo dei giocatori di Arteta in quel momento o sullo sguardo di Lacazette: perso nel vuoto o diretto verso i giocatori avversari, privati anche questa gara di Kudela dopo la squalifica di 10 giornate per razzismo?

In fondo, non è così importante rispondere a questi dubbi. Piuttosto, è stata significativa la spiegazione data da Arteta alla fine della partita sulla scelta dei suoi ragazzi di inginocchiarsi: una decisione fortemente voluta e richiesta dai giocatori stessi, intenzionati a mandare un forte messaggio contro il razzismo tanto agli avversari quanto al pubblico da casa. Perché la squalifica di Kudela, sulla cui lunghezza c’è stato un inevitabile dibattito tra chi chiedeva esclusioni a vita o di più anni e chi non riconosce nemmeno oggi la matrice razzista degli insulti, era una questione fresca, su cui non si poteva intervenire. A maggior ragione contro una squadra che, invece di prendere una forte posizione anche verso un proprio tesserato, ha cercato di difenderlo fino alla fine, rifiutando di riconoscere l’insulto razzista.

D’altro canto, è una questione su cui ha pensato bene di muoversi persino la politica, dal momento che il capo di gabinetto della presidenza ceca Vladimir Mynar ha inviato una lettera all’UEFA per contestare la squalifica, ritenendola “infondata” e come “una lotta al razzismo trasformata in ipocrisia”. Presa di posizione tutto sommato in linea con quelle già precedenti del presidente Milos Zeman, che conta nel curriculum diverse uscite dello stesso tono: per esempio, che la campagna “Black Lives Matter” fosse razzista e fosse preferibile uno slogan come “all lives matter”; oppure quando definì la popolazione rom “pigra”.

Il clima, insomma, ha decisamente favorito la dura presa di posizione dell’Arsenal che, assieme agli altri club d’Inghilterra, si ritrova a dover fare i conti quotidianamente con abusi e insulti di stampo razzista contro i propri tesserati. È un tema particolarmente sentito nel calcio inglese perché sta assumendo dimensioni enormi: basta farsi un giro tra i canali ufficiali delle società per rendersi conto che, dopo ogni partita, i club si ritrovano a dover pubblicare comunicati di difesa di propri giocatori e condanna agli insulti, chiedendo alle piattaforme social di intervenire con maggior forza.

I giocatori dell’Arsenal hanno così espresso la propria posizione affidandosi a quel gesto che è ormai universalmente riconosciuto come simbolo della lotta al razzismo nello sport. Anche l’arbitro Cakir si è unito alla manifestazione, mentre lo Slavia Praga, ancora una volta, ha deciso di non partecipare, rimanendo in piedi riunito a centrocampo, a differenza di quanto fatto all’andata. Non è chiaro se i cechi abbiano voluto mostrare così la propria solidarietà o abbiano mandato un messaggio diverso. Di sicuro, hanno preferito inginocchiarsi a fine partita, in segno di ringraziamento ai pochi tifosi presenti allo stadio. E di utenti sui social che sottolineano che questo sia l’unico vero motivo per inginocchiarsi ce ne sono diversi, a testimoniare il clima generale.

Da mesi ormai si discute sulla possibilità di mettere fine al tradizionale kneeling di inizio partita in Inghilterra e qualche club ha deciso di smettere autonomamente (per esempio il Brentford). Alcuni giocatori come Zaha si sono pronunciati addirittura contro, ritenendo meglio rimanere in piedi nella lotta al razzismo. L’Arsenal avrebbe potuto non manifestare affatto o farlo in altra maniera. Lo ha fatto affidandosi a un gesto scelto volontariamente e riempito ancora una volta di significato. Non esattamente una semplice e vuota abitudine.

Francesco Moria
Francesco Moria
Nato a Monza nel '95, ha tre grandi passioni: Mark Knopfler, la letteratura e il calcio inglese. Sogna di diventare giornalista d'inchiesta, andando a studiare il complesso rapporto tra calcio e politica.

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