VERSO #Euro2020 – 1992, Essere o non essere… Campioni d’Europa: la favola della Danimarca

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Prendetevi del tempo, mettetevi comodi. Ce n’è da leggere, ma non vi spaventate. Perché la storia più bella di sempre dei campionati europei non ha a che fare soltanto con un pallone che rotola, ma risuona dell’eco dei cingoli dei carri armati e, decisamente, vale molto di più. Racconta il destino di due Paesi diametralmente opposti, l’austera Danimarca e la ribollente Jugoslavia, terre di due popoli fieri e battaglieri, ma con stili diversi. Soprattutto, è una storia che non comincia nel 1992, quello è soltanto il capitolo finale. L’incipit ci porta indietro a dodici anni prima, per l’esattezza al 4 Maggio 1980. Il giorno della morte del Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia: Josip Broz Tito. Occorre, dunque, una spiegazione storica preliminare, prima di quella meramente calcistica. Quest’ultima è una favola, non a caso Hans Christian Andersen è danese ed il suo Brutto Anatroccolo può, in qualche modo, ricalcare le gesta di una nazionale che tutti, ma proprio tutti, non avevano minimamente preso in considerazione.

1980, dicevamo. Nata alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per quasi mezzo secolo Tito aveva tenuto unita una nazione con la sua autorità, al di là di frequenti tensioni dovute alle diverse etnie, religioni e ambizioni di autonomia. Sei Stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religoni, due alfabeti. Un… Tito. Quando morì, a Lubjana in Slovenia, tutto questo svanì. Non di colpo. Lentamente, ma inesorabilmente. Il processo di disgregazione della nazione venne alimentato anche da una situazione economica sempre più insostenibile, esplosa nel periodo successivo alla scomparsa del capo supremo e per tutto il decennio degli anni ’80. L’Armata serba proponeva di risolvere la crisi con un governo di unità nazionale, senza spazio per diversità di ideologie o interessi. Con la promessa di un risanamento finanziario e morale del paese, aveva trovato l’alibi perfetto per cavalcare finalmente la presa di potere di Belgrado. Condottiero, il demagogo Slobodan Milosevic, che vedeva nella Slovenia un’inutile zavorra con l’esaurirsi della Guerra Fredda. E infatti, il Paese al confine con il Friuli Venezia-Giulia sarà poi il primo a diventare indipendente. C’era, però, uno stato centrale da mantenere saldo, perché l’imminente caduta del muro di Berlino avrebbe tolto alla Jugoslavia quel ruolo cardine di Stato-cuscinetto tra i due blocchi e con esso anche il partito comunista sarebbe crollato. 

Il biennio ’90-’92 fu tesissimo, tra interventi ed embarghi Onu e spari, bombardamenti e massacri. Nel 1990 prima la Slovenia e poi la Croazia divennero indipendenti, con Franjo Tudjman (ex-generale di Tito e contestatore del regime) a vincere le prime libere elezioni croate. C’era da affermare una leadership, non si poteva porgere l’altra guancia ai serbi, la conseguenza non poteva che essere l’inasprirsi del conflitto tra i due popoli. Il 1991 l’anno cruciale, con l’aggressione della Serbia ai croati iniziata nel mese di Luglio. Le tensioni maggiori erano con quei musulmani orgogliosi che non volevano che la propria storia passasse dalla dominazione ungherese all’egemonia di Belgrado e, soprattutto, non volevano cedere i territori migliori: Slavonia, Krajina e Dalmazia meridionale facevano gola e, grazie anche all’aiuto di unità paramilitari serbe e montenegrine, guidate dalla furia delle “Tigri” di Zarko Raznjatovic-Arkan, migliaia di croati, ungheresi e razze minori fuggirono inizialmente da quelle zone verso la Croazia occidentale e adriatica. Intervennero le Nazioni Unite, inviando truppe di pace al confine orientale croato, dove si installarono i caschi blu dell’UNPROFOR (United Nations Protection Force). Questo, però, favorì la Serbia, che in quel periodo di stasi potè rafforzare il governo in quei territori. Nonostante ciò, la Croazia dichiarò indipendenza assoluta l’8 Ottobre 1991. A quel punto restava la Bosnia-Erzegovina a dover decidere il proprio futuro. Annettersi alla Grande Serbia o dichiarare indipendenza anch’essa? 

Fu indetto un referendum e di misura vinse la voglia di essere un Paese vero, autonomo. Il 7 Aprile 1992, la Comunità europea riconobbe la sovranità del nuovo Stato, scatenando così la furia cieca dei serbi, che si video scippati del bottino. Sarajevo fu presa d’assalto e così fu nei mesi successivi, in cui il governo serbo fece pulizia etnica e si insediò nei territori occupati. La guerra era ben lontana dal finire e sarebbe proseguita fino al 1995, quando più di ottomila uomini, tra cui moltissimi adolescenti, vennero trucidati in un genocidio che passerà alla storia come il “Massacro di Srebrenica”. Il 14 Dicembre di quello stesso anno, a Parigi, sotto lo sguardo del presidente Chirac venne siglato in via definitiva l’Accordo di Dayton. Il serbo Milosevic, il croato Tudjman ed il bosniaco Izetbegovic, mediati dall’americano Richard Holbrooke, stabilirono la creazione di due entità interne alla Bosnia-Erzegovina: la Federazione croato-musulmana (51% del territorio nazionale) e la Repubblica Serba (il restante 49%, ovviamente), con il ritorno della regione della Slavonia alla Croazia, che ne deteneva già la proprietà prima del conflitto.

Anche il calcio era ampiamente entrato nella storia politica della Guerra in Jugoslavia e a gamba tesa anche. La data indelebile è il 13 maggio 1990, Stadion Maksimir di Zagabria. Già il nome dell’impianto va in grottesco contrasto con la realtà, frutto di una crasi tra il nome dello storico vescovo cittadino, Maksimilijan ed il suffisso “mir”, che letteralmente significa “pace”. Quel giorno, si gioca un importante partita del campionato jugoslavo: la Dinamo Zagabria, squadra croata per eccellenza, affronta la Stella Rossa di Belgrado che, insieme al Partizan, è il club più rinomato dell’attuale Serbia. Seconda contro prima in classifica. Una settimana prima appena, Tudjman è stato eletto come primo presidente della storia della Croazia libera. In un contesto di fortissime tensioni sociali e politiche dovute all’imminenza del conflitto balcanico (anche per questa scissione) una partita del genere, già intrisa di una forte rivalità sportiva, diventa l’occasione per manifestare anche tutto l’odio reciproco di quel momento. Esponenti della frangia di ultras più accesi di Zagabria sono il gruppo BBB, acronimo di Bad Blue Boys. I cattivi ragazzi blu, attivi dal 1986 e il cui nome è in onore di un film americano di successo, Bad Boys appunto. Dall’altra parte, i Delije (gli eroi), sostenitori della Stella Rossa ed il cui appellativo ricalca un canto serbo della tradizione ottomana. Il loro capo? Lo avete già incontrato tra le righe precedenti, il suo nome è Željko Ražnatović e presto sarà noto come il comandante Arkan delle Tigri, la cruenta unità paramilitare presente sia sugli spalti per il calcio che nei campi di battaglia. Sul proprio sito internet, i BBB sostengono che “la guerra in Croazia è iniziata quel giorno”. Loro stazionano in curva nord e sono in ventimila, gli ospiti dalla parte opposta, in curva sud e sono appena tremila. Prima del match, lo stadio è avvolto da una serie di cori sprezzanti che volano dall’una all’altra parte, sorvolando il rettangolo verde. A garantire la sicurezza, gli agenti della milicija, la polizia federale jugoslava che, a quel punto, neutrale non poteva mai essere. Alla lettura delle formazioni, si scatena l’inferno: i serbi si catapultano verso i rivali scavalcando il settore intermedio, lasciato vuoto per sicurezza. Parte dal lato opposto il contingente blu e ingaggiano subito un corpo a corpo violento. Nel frattempo, la parte restante dei BBB si riversa in campo. È un caos, al quale molti dei giocatori già in campo cerca di sfuggire scappando negli spogliatoi. I serbi rimasti nel loro settore osservano i croati in campo a battagliare con la polizia, che cerca di sedare la rivolta in malo modo. Sul rettangolo di gioco sono rimasti pochi calciatori, uno di questi è il ventunenne Zvonimir Boban, che non può assistere impassibile alla violenza degli agenti contro il suo popolo. Nel Milan sarà un fine domatore di fioretto, quel giorno, su quel campo, usò la sciabola con tutta la sua fierezza croata. All’ennesimo insulto di un agente, gli volò letteralmente addosso, fratturandogli una mascella con un calcio volante. Gli costerà una squalifica di nove mesi e l’esclusione dai mondiali di Italia ’90. Peccato che quell’agente non fosse serbo, ma bosniaco-musulmano, cioè una delle future vittime di quella guerra. La maxi-rissa dura più di un’ora, la partita non comincerà mai e le strade di Zagabria verranno messe a ferro e fuoco. Alla fine, per fortuna non ci saranno morti, ma i feriti saranno 59, 79 quelli della polizia, 135 gli arresti, più la devastazione del campo da gioco e di autobus e automobili parcheggiate nei dintorni. Un giorno da ricordare, insomma, ma non certo piacevole. Oggi, davanti all’entrata dello stadio Maksimir, non più luogo di pace evidentemente, una statua di soldati, i Bad Blue Boys, campeggia con tanto di dedica: “Ai tifosi della Dinamo Zagabria, che iniziarono la guerra con la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990”. Da quel giorno, Bad Blue Boys e Deljie abbandonarono gli stadi per continuare a combattere, e ad uccidersi, nelle trincee.

E veniamo al calcio, quello giocato, non quello “calciato”. Il 2 febbraio 1990, giorno del sorteggio delle qualificazioni a Euro ’92, arriva lo scoop del quotidiano “Ekstra Bladet” che svela un conto segreto in Liechtenstein del Ct tedesco Sepp Piontek, la guida della Danish Dynamite che ha stupito tutti negli anni ’80, con un europeo in Francia e un mondiale in Messico fantastici. Un deposito per i suoi ingaggi pubblicitari, niente di illegale per capirci. Il giorno stesso, però, Piontek rassegna le dimissioni ponendo, di fatto, la parola fine al romanzo danese che era stato in quegli anni. Al suo posto venne ingaggiato Richard Møller Nielsen, il suo assistente. Una scelta che non piacque subito nemmeno ai giocatori e successiva a qualche battibecco di troppo su possibili nomi stranieri prima e la scelta, breve e scellerata, di ingaggiare poi il carneade tedesco Horst Wohlers. Durò poche ore, perché il suo club di appartenenza, il modesto Bayer Uerdingen, non lo volle liberare gratis. A parte i giocatori dell’Under 21 e dell’Olimpica che aveva allenato, nessuno conosceva bene Nielsen né aveva avuto rapporti con lui. Era solo un assistente e i senatori della nazionale volevano uno straniero. Pronti, via e subito la sconfitta a Wembley della Danimarca per mano degli inglesi con gol di Lineker. Nelle qualificazioni agli europei del ’92 le cose non vanno meglio, anzi. Dopo una vittoria larga contro le modeste Fær Øer e un pari stentato in Irlanda del Nord, il 14 Novembre all’Idrætsparken arriva proprio la Jugoslavia, l’avversaria più temibile del girone. Campione del mondo Under 20 in Cile con la generazione d’oro dei Posinecki, Boban, Suker, Stimac, Mijatovic, poi traslata in nazionale maggiore e guidata da un grande leader tecnico, Dragan Stojkovic, Piksi per i compagni. 

Breve digressione: se tra i clichè più abusati del calcio c’è la famosa domanda: “Ma cosa avrebbe potuto vincere la Jugoslavia, se fosse rimasta unita?”, lo si deve proprio a quella nazionale fortissima che, un po’ come l’Ungheria di Puskas e Hidekguti degli anni ’50, ha raccolto decisamente meno di quanto avrebbe potuto. I magiari, almeno, una finale mondiale l’hanno giocata, anche se persa in maniera clamorosa 3-2 in rimonta dalla Germania di Fritz Walter e compagni. Dove sarebbe potuta arrivare la selezione di Osim a Italia ’90, se quei maledetti tiri dal dischetto di Firenze non avessero premiato Maradona e soci, al termine di una partita dominata invece dai balcanici? Non è dato saperlo, quel che è certo è che, ancora una volta, il calcio slavo finì schiavo del proprio dna: “Umirati u lepoti”, dice un famoso detto serbo, cioè: morire nella bellezza. Incantare, ma uscire puntualmente sconfitti sul più bello. Solo la Stella Rossa, nel 1991 al San Nicola di Bari, è riuscita a portare a casa una storica Coppa dei Campioni, ai danni dell’Olympique Marsiglia, sempre ai rigori. Un miracolo che, fin qui, non si è più ripetuto. Anzi, il calcio slavo è progressivamente degenerato ai confini del luccicante football europeo.

All’epoca, però, tutta questa consapevolezza non c’era ancora, la “Jugo” è e resta forte, fa paura ai giocatori danesi, cui non piace proprio la nuova mentalità conservativa del Ct e presagiscono la sconfitta al cospetto di tali campioni. E infatti la partita è una tragedia, i “palvi” (blu, in lingua serba) si impongono 2-0 con Bazdarevic e Jarni. Dopo quel match, dicono addio alla nazionale Jan Mølby, a soli 27 anni, ma soprattutto i fratelli Laudrup. Michael, la stella, decide di concentrarsi solo sul Barcellona, squadra dove è molto più divertente giocare con la mentalità di Johan Cruijff, mentre il fratello Brian è molto più diretto: “Non rispetto Richard Møller Nielsen come allenatore”. Un disastro, ma il Ct non si lascia scomporre e va a Belgrado per la quarta partita con le sue idee. E vince 2-1 con doppietta di Christensen. Le assenze pesanti, evidentemente, hanno responsabilizzato il resto della squadra. Da lì, altre tre vittorie di fila, il che li porta a giocarsi la qualificazione all’ultima giornata. A Odense la Danimarca batte l’Irlanda del Nord, ma a Vienna un’Austria in netta crisi e demotivata cede 2-0 alla Jugoslavia che, con i gol di Lukic e Savicevic, stacca il biglietto per la Svezia. Nonostante un girone ben combattuto, alla fine Nielsen è attaccato su tutti i fronti, dalla tv all’opinione pubblica e la DBU, la federazione danese, ha tutta l’intenzione di non rinnovargli il contratto. Dopo un’amichevole contro la Norvegia ad Aprile, infestata da un insulto di un teppista sul prato contro il Ct e visto da tutta la nazione in tv, Nielsen decide insieme alla moglie di dedicarsi, per l’estate imminente, a rifare la cucina della loro casa al mare. Vita casalinga, lontano dai riflettori e dal calcio.

Tutto finito dunque? No, perché nei Balcani c’è una guerra in corso e la situazione è sempre più insostenibile. Il 25 marzo 1992 al De Meer di Amsterdam si gioca l’amichevole tra Olanda e Jugoslavia e sarà l’ultima partita ufficiale di quella selezione fortissima. Non vi presero parte Prosinecki, Boban e Suker, che hanno ormai detto addio alla nazionale per votarsi completamente alla causa della Croazia, la loro neonata nazione. Sarà l’ultima partita anche del CT Ivica Osim che, a pochi giorni dalla partenza per la Svezia, si dimette in segno di solidarietà per Sarajevo, sua città natale, bombardata dall’Armata Popolare Jugoslava (JNA) e dalle forze serbo-bosniache (VRS) in quell’assedio che durerà quasi quattro anni. Al suo posto, Ivan Cabrinovic, con una squadra ormai a maggioranza serba, più il macedone Darko Pancev. I giorni che seguono sono convulsi. In una riunione concitata di FIFA e UEFA si decide in un primo momento di salvare la Jugoslavia, nonostante in Svezia ci siano migliaia di profughi croati, bosniaci e kosovari che potrebbero minare la sicurezza del torneo. L’ONU, però, proclama l’embargo nei confronti di Belgrado e la esclude da tutte le manifestazioni sportive internazionali. Sepp Blatter, a quel punto, fa retromarcia e, a dieci giorni dall’inizio del campionato europeo di calcio, avviene l’impensabile: esclusa dagli europei la Jugoslavia – che poi riapparirà sotto forme e paesi differenti solo anni dopo, balcanizzata – e viene richiamata la Danimarca. Quel Paese, non solo quella Nazionale, finì quel giorno. 

La cucina di Nielsen può aspettare, così, il Ct avvisa i suoi: molti stanno disputando la fase primavera del campionato, che termina l’8 giugno, altri giocano all’estero e sono a fine stagione, alcuni di loro sanno comunque di dover disputare il 3 Giugno un’amichevole contro la CSI, la Comunità degli Stati Indipendenti, ossia una selezione che riunisce nove stati disgregati dell’Unione Sovietica. Anch’essa sarà in Svezia, qualificatasi ai danni dell’Italia. Non immaginano certo di dover affrontare un torneo intero. Però, in fondo, si trattava di andare a fare la comparsa, di giocare senza pensieri. Tutti accettano, meno il migliore, Michael Laudrup, che continuò a fare la star, non sapendo che stava rinunciando a una grande avventura. Accettò, invece, il calciatore che i pensieri li aveva e come, Kim Vilfort, di cui tutti conoscevano il dramma e che l’opinione pubblica seppe solo dopo. Aveva una figlia di otto anni, Line, malata di leucemia, che andava ad assistere tra una partita e l’altra. Giocava nel Brøndby IF, allora, e oggi ne allena le giovanili. Accettò anche Brian Laudrup, che aveva fatto pace, nel frattempo, con il Ct ed era di ritorno da un’amichevole di fine stagione con il Bayern Monaco. All’inizio pensa ad uno scherzo, poi cancella le vacanze in California e si unisce al gruppo. Lo zoccolo duro gioca in patria nelle file del Brøndby, che l’anno prima ha sfiorato la finale di Coppa UEFA. Ci giocano i difensori Kim Christofte e Lars Olsen, i mediani John Jensen e il già citato Vilfort, l’attaccante Ben Christensen e, soprattutto, il portiere Peter Schmeichel, che verrà prelevato nell’estate del 1991 da Alex Ferguson e reso una leggenda del Manchester United.

In una settimana la preparazione era tutta sulla fiducia e sulla speranza, un “siete atleti, anche se in vacanza”. Per i bookmakers, la Danimarca ha la quota più alta per la vittoria finale (25-1), il che significa che è l’ultima degna di considerazione perché ciò avvenga davvero. Il gruppo, per giunta, è di quelli tosti: oltre ai padroni di casa della Svezia, c’è l’Inghilterra semifinalista a Italia ’90 e la Francia che ha vinto tutte le gare di qualificazione. Arsene Wenger, allora assistente di Platini nella sua breve e infruttuosa esperienza da Ct dei galletti, non torna impressionato dall’amichevole pareggiata 1-1 dalla Danimarca con la CSI.

La Svezia, così, ospita una nuova rassegna calcistica internazionale, 34 anni dopo aver visto trionfare il Brasile del sedicenne Pelè ai mondiali. Nella gara inaugurale, i padroni di casa impattano contro la Francia 1-1. Il giorno dopo, l’11 Giugno, è il turno della Danimarca. A Malmö, c’è l’Inghilterra di Graham Taylor (, subentrato a Bobby Robson) che, a sorpresa, non ha convocato Peter Beardsley ed il gioiello Chris Waddle. Uno degli attaccanti che più ha messo in difficoltà, per sua stessa ammissione, Paolo Maldini in tutta la sua carriera. Le due squadre si guardano a vista nel primo tempo, mentre sono più frizzanti nella ripresa. Il gol, però, non arriva. John Jensen prende anche un palo, a momenti i ripescati vincono. Alla fine, lo zero a zero accontenta tutti. Seconda gara, si va a Stoccolma contro la Svezia, zeppa di talenti che diventeranno molto noti nella nostra Serie A: Björklund, Ingesson, Schwarz, Thern, Brolin, Martin Dahlin, Kenneth Anderson. Una generazione, per capirci, che due anni più tardi raggiungerà il terzo posto ai mondiali di Usa ’94, sconfitta solo da un guizzo letale di Romario. Tutti, perciò, si aspettano la goleada dei padroni di casa. La partita, invece, è combattuta, Ravelli e Schmeichel vengono impegnati in più d’un’occasione. Alla fine, la Svezia vince con un po’ di fortuna, capitata al 58’ tra i piedi di Tomas Brolin, il quale poi sciupa un ghiottosissimo 2-0 davanti alla porta. Ravelli, alla sua novantesima partita in nazionale, devia in angolo una punizione di Kim Christofte che poteva valere l’1-1. I danesi dimostrano che, sebbene non abbiano potuto prepararsi per tempo, sono difficili da battere, come se quell’improvvisazione e quell’animo leggero da “non abbiamo nulla da perdere”, li mandi in campo belli e strafottenti, immuni alla pressione, giocano liberi.

Ora, però, non si possono più far calcoli, la Danimarca torna a Malmö per giocare la terza partita contro la Francia di Platini (allenatore) e serve solo una vittoria, altrimenti si ritorna a casa. I transalpini, invece, con un pareggio vanno dritti in semifinale. Sono i favoriti, hanno il Pallone d’Oro in carica, Jean-Pierre Papin, ed il genio ribelle Eric Cantona, fresco di titolo di Premier League con il Leeds United, anche se aveva abbracciato la squadra soltanto nel mese di Gennaio, al termine di una delle sue annate turbolente fatta di brutti gesti, squalifiche e un ritiro dal calcio giocato – per fortuna nostra – soltanto momentaneo.

Due giorni prima del match, di ritorno dall’allenamento, il pullman danese è fermo nel traffico. Henrik Larsen, che gioca nel modesto Lyngby, guardando dal finestrino scorge un campo di mini-golf e chiede a coach Nielsen di fermarsi a fare una partita. A sorpresa, il pur sobrio Ct accetta la proposta e tutta la squadra scende su quel green per rilassarsi, farsi due risate e scaricare la tensione pre-partita. Uno di quei gesti che, in gergo, si dice che “fanno gruppo” e in realtà così è, perché inconsciamente, anche senza avere pretese, in quel momento quei giocatori accrebbero in se stessi la consapevolezza che potevano giocarsi quella sfida. Potevano farcela.

Proprio Henrik Larsen prende il posto di Vilfort nell’undici iniziale. Il centrocampista del Brondby ha ricevuto una chiamata terribile, la figlia è stata ricoverata, le sue condizioni peggiorate. D’accordo con il Ct, ha preso il primo volo per Copenaghen. Dopo 8 minuti del match di Malmö è proprio Larsen a silurare il portiere Martini con un sinistro al volo su assist di Povlsen. Larsen, uno che all’Arena Garibaldi di Pisa non aveva lasciato traccia, stava ora scrivendo la storia calcistica della Danimarca. Non è ancora tempo di far paragoni con le novelle del poeta di patria Andersen, però, perchè Jean-Pierre Papin, un caporale napoleonico, fa valere i suoi gradi di miglior giocatore d’Europa ed è bravissimo a rovinare la felicità altrui. All’ora esatta di gioco, con un diagonale che impasta tecnica e freddezza, porta il match sull’1-1. Mancano dieci minuti alla fine, la Francia è dove deve essere, in un comodo pareggio e la Danimarca sta per tornare alle vere vacanze, uscendo da questa illusione in salsa jugoslava. La Francia continua ad attaccare, Deschamps si divora il 2-1. Nielsen, in uno slancio di generosità, cerca di far giocare tutti e manda in campo Lars Elstrup, al posto della stella Brian Laudrup. Al primo pallone toccato, su una ripartenza con cross perfetto di Povlsen, la appoggia in porta, Martini è battuto di nuovo dall’attaccante dell’Odense. Ciao ciao Francia. La Danimarca è in semifinale! Elstrup, eroe per caso davvero: si ritirerà l’anno dopo a 30 anni, aderirà a una setta, cambierà nome in “Darando” (fiume che scorre), verrà arrestato due volte (una per atti osceni in luogo pubblico), tenterà il suicidio. Nel 2016 invade “nudo” il campo del Cepheus Park Randers durante la partita di Superligaen tra Randers e Silkeborg. La sua vita non è fatta di file alla posta. Il suo gol manda al tappeto l’esperienza di Michel Platini come allenatore in assoluto. “Le Roi” si dimetterà e intraprenderà la carriera dirigenziale, che lo porterà al vertice della UEFA.

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Nell’altro girone, manco a dirlo, Olanda e Germania fanno un sol boccone di Scozia e CSI. Gli oranje passano per primi e vincono lo scontro diretto con i tedeschi, che si accontentano della seconda piazza. In semifinale, dunque, sarà Svezia contro Germania e Olanda contro la cenerentola Danimarca. Immaginarsi una finale tra crucchi e tulipani non è un azzardo e mette la pelle d’oca, pensando all’ennesima occasione di rivalsa per entrambe le nazionali. C’è una finale mondiale del ’74 da vendicare, ma anche una semifinale dell’europeo ’88 sull’altra sponda. Ci sono i tre milanisti Rijkaard, Gullit e Van Basten e gli interisti Brehme, Matthaus e Klinsmann (tutti e tre, dopo quel torneo, avrebbero lasciato l’Italia e sarebbero approdati rispettivamente al Real Saragoza, Bayern Monaco e AS Monaco). Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per sognare una grande finale.

I tedeschi rispettano il pronostico, superando i padroni di casa della Svezia al termine di una partita spettacolare. Segna subito Hässler, raddoppia ad inizio ripresa Riedle, su rigore di Brolin rientrano subito in partita gli scandinavi. Ancora Riedle, però, chiude i giochi sul 3-1 e a nulla vale il punto del 3-2 di Kenneth Andersson al 90’. L’arbitro italiano Lanese dà il triplice fischio e consegna la finale alla squadra di Berti Vogts. Beckenbauer non c’è più, dopo il titolo mondiale ha provato l’esperienza in Ligue 1 all’Olympique Marsiglia, ma ha fallito ed è stato sostituito da Raymond Goethals. Vincerà una Bundesliga e una Coppa UEFA con il Bayern Monaco tra il ’94 e il ’96, dopodichè non allenerà più.

Manca solo l’Olanda. Un megamix di stelle e giovani emergenti, in cui Ronaldo “Rambo” Koeman è in odor di pallone d’oro (ma lo rivincerà Van Basten) e quattro ragazzini dell’Ajax sono diventati titolari: Frank de Boer, Richard Witschge, Dennis Bergkamp e Bryan Roy. La partita comincia, passano solo sei minuti e… zac, i danesi segnano anche ai tulipani, ma come?! Non vi basta? E poi ancora la pippa Henrik Larsen. No, è troppo. Rimette in ordine le cose Bergkamp, Schmeichel stecca come raramente gli capita, e tutti dietro le birre al bancone pensarono che ogni cosa è al suo posto, ora l’Olanda va in finale e questi turisti tornano a casa loro. Invece segna, e segna ancora Larsen, proprio lui. Ma tanto è solo il primo tempo, c’è tutto il secondo, vuoi che uno dei grandi nomi oranje non segni? Sì, eccolo, segna Rijkaard, e gli scandinavi hanno anche perso Claus Christiansen, gli si è piegato il ginocchio in modo assurdo. Per mezz’ora l’Olanda gioca contro il portiere danese, per mezz’ora tutti pensano: Ok è finita, però sto Schmeichel sembra l’incredibile Hulk. Biondo. E infatti vince lui.

Olanda e Danimarca vanno ai calci di rigore. Dopo il primo rigore realizzato da Koeman e la risposta vincente di Henrik Larsen, il duello successivo è da spaghetti-western di Sergio Leone: Marco Van Basten, pluri-campione d’Europa con il Milan e la Nazionale, e futuro Pallone d’Oro per la terza volta, contro Peter Schmeichel, futuro campione di tutto con il Manchester United. La fatica dei 120 minuti si fa sentire e, sebbene l’Olanda abbia giocato bene fino a quel momento, Van Basten non è riuscito ancora ad incidere nel torneo. Prende la rincorsa, la decisione di calciare a destra è già presa, ma il tiro non esce granchè, così Schmeichel si distende nell’angolo giusto e arriva sul pallone. Parata. L’errore del “Cigno di Utrecht” è l’unico in tutta la serie e, quindi, decisivo per dare il benservito all’Olanda ad un passo dalla finale. Un europeo da dimenticare per il nove del Milan.

La Danimarca è in finale, contro la Germania di Berti Vogts. Colpo di scena! Partono alla volta dell’Ullevi Stadion di Göteborg  circa 20.000 danesi, la metà di questi non ha il biglietto. Il principe ereditario di Danimarca Frederik ce l’ha (!) e siede accanto al cancelliere tedesco Helmut Kohl. Pelè e Beckenbauer arricchiscono il parterre. Le premesse non sono buone, i danesi hanno un giorno di riposo in meno e trenta minuti di supplementari in più. E mancano gli infortunati Christensen e Andersen. La Germania, invece, è al gran completo. Klinsmann e Riedle odorano già il sangue delle vittime designate. La finale comincia alle 20:15 del 26 Maggio 1992 sotto il sole ancora alto dell’estate scandinava. Al 18’ si fa la storia: Vilfort ruba palla a Brehme, Povlsen interviene e serve all’indietro lo sgangherato Faxe Jensen, uno che non dà mai del tu al pallone. Il centrocampista abbassa la testa, calcia forte… e segna, Illgner è battuto! Faxe, quello che poteva segnare all’Inghilterra e non lo fece. Ora è lui l’eroe. Poi, certo, c’è Schmeichel, che balza come un felino sul tiro di Klinsmann già destinato in rete. Sarà un duello tra i due, vinto nettamente dal primo, che si oppone con forza anche a Thomas Doll. Nel momento decisivo, Peter non ha tradito. Cosa manca alla favola? Oltre i 71 minuti dopo il vantaggio? Il gol di Vilfort, elementare calcio, quello col segreto che ora tutti conoscono: ha sua figlia con la leucemia, va e viene dalla Danimarca e gioca per avere degli attimi di dimenticanza. Uno glielo passa Christiansen, Kim non ci pensa due volte, manda al bar con una finta Brehme ed Helmer e tira dal limite, non ci pensa e segna. Palla in buca d’angolo che rintuzza sul palo e termina la sua corsa nel sacco. Il suo calcio è il rifiuto di un dolore, che purtroppo tornerà. Due a zero. Danimarca campione. I giocatori sfilano sul prato sotto un cielo di fuochi d’artificio, il capitano Lars Olsen alza la coppa al cielo. Nessuno ci credeva prima, tutti sono increduli ancora in quel momento. Il lieto fine, alla fine, è arrivato… e vissero tutti felici e contenti di quell’impresa indimenticabile!

Roberto Tortora
Roberto Tortora
Laureato in Scienze della Comunicazione, a Salerno. Master in Giornalismo IULM, a Milano; Giornalista professionista.

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