Dopo 27 anni il Qarabağ è tornato ad Ağdam

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Dallo scorso 20 novembre, allo stadio Bahrmov di Baku sono comparsi due cartelloni giganti, con su un annuncio atteso quasi 30 anni: “Evimizə dönürük! qarabağazərbaycandır!”, “Stiamo tornando a casa! Il Qarabağ è Azerbaigian!”. Un messaggio nazionalistico forte e chiaro, che il Qarabağ ha diffuso per mesi, durante tutta la durata del nuovo, sanguinoso conflitto che ha opposto Armenia e Azerbaigian per il controllo del territorio conteso del Nagorno-Karabakh. Tra il racconto di una gara e l’altra, il club azero ha inserito una vera e propria cronaca dei successi militari del proprio esercito nazionale che, alla fine, questo nuovo capitolo della guerra è riuscito a vincerlo, occupando nuovamente un territorio rimasto in mano armena per quasi tre decenni.

I toni usati pubblicamente dagli ambienti Qarabağ sono andati a volte anche ben oltre il semplice spirito nazionalista. La squalifica a vita rifilata dalla FIFA all’ormai ex addetto stampa Nurlan Ibrahimov per il suo messaggio disumano in cui si augurava lo sterminio degli armeni ha testimoniato la preoccupazione del mondo dello sport davanti a questo utilizzo del calcio come strumento politico, sfociato così anche nell’odio etnico. Tra immagini e video sui social, dichiarazioni dell’allenatore e dei giocatori alla stampa e anche festeggiamenti in campo con il saluto militare, non c’è stato un giorno in cui il Qarabag non abbia espressamente mostrato il proprio totale sostegno ai combattenti al fronte. Facendo, a tutti gli effetti, propaganda nazionale.

Il 20 novembre, però, ha segnato la svolta. Terminate le operazioni militari principalmente grazie all’intervento russo, il popolo armeno ha cominciato ad abbandonare le zone devastante del Nagorno-Karabakh lasciando spazio all’accesso prima dell’esercito e, piano piano, anche dei civili azeri. E, tra le città liberate, una delle più importanti è senza dubbio Ağdam, la città dove tra l’altro proprio il Qarabag è stato fondato ed è rimasto a giocare fino al 1993. Agli occhi dei tifosi azeri, la terra da liberare da un’occupazione ritenuta illegittima. E questo spiega perché, sin dalla fine del conflitto, sia partito un vero countdown per la liberazione prima e una continua celebrazione poi in casa Qarabağ.

Il giorno simbolicamente più importante, però, è avvenuto ieri: quello del ritorno del club calcistico nella propria città. Come testimoniato dalle immagini pubblicate sui social della società azera, il presidente del club Tahir Gozel, il direttore Emrah Celikel, il direttore generale Asgarov e i dipendenti del club, compresi dunque allenatori e giocatori, sono partiti alla volta di Agdam, dando vita a un vero e proprio pellegrinaggio alla città liberata.

Il gruppo ha visitato la moschea Juma in centro città prima di dedicarsi alla preghiera, poi all’Aghdam State Theatre, per poi dedicarsi al simbolico passaggio al cimitero, in particolare alla tomba dell’ex capitano e allenatore Allahverdi Bagirov. Non solo un semplice uomo di sport, ma un vero e proprio eroe nazionale proclamato nel 1994 dal governo: dopo aver preparato le basi per la futura esplosione del Qarabağ (il club, dopo anni di anonimato nelle serie minori sovietiche, ha vinto i suoi primi trofei nazionali solo nel 1993), Bagirov è morto in guerra dopo aver avuto in importante ruolo nel difendere Khojaly, una delle città simbolo del massacro azero.

Infine, è arrivata la tappa simbolicamente più importante per il Qarabağ: il terreno dove un tempo sorgeva lo stadio Imarat, abbattuto dai bombardamenti nel 1992. E lì sopra, dirigenti e giocatori hanno festeggiato la liberazione nel modo per loro più naturale: giocando una partita di calcio. Un evento storico per il club azero, rimasto in esilio per anni a Baku, lontano dalla città di nascita. E che, davanti alla nuova svolta data al sanguinoso e drammatico conflitto etnico del Nagorno-Karabakh, potrebbe presto tornare a essere la propria casa.

 

Francesco Moria
Francesco Moria
Nato a Monza nel '95, ha tre grandi passioni: Mark Knopfler, la letteratura e il calcio inglese. Sogna di diventare giornalista d'inchiesta, andando a studiare il complesso rapporto tra calcio e politica.

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