Il Dio senza perdono

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Il mondo si divide in due categorie di persone: quelli che credono in Dio e quelli che hanno seri dubbi sull’esistenza di chi non possiede imperfezioni. E dire che non è stato sempre così. C’è stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui Dio aveva vizi e debolezze. Immortale, intendiamoci, ubicato sopra le nuvole, niente da invidiare a quello nostro, ma sbagliava. Si innamorava, si vendicava, si pentiva e tentava di aggiustare le cose per quanto possibile, non sempre in maniera giusta e raramente incontrando la soddisfazione del cliente mortale.

A quell’epoca Dio non era un solitario. Ce n’erano diversi e ognuno deteneva una propria sfera di competenza. Di ciascun Dio si poteva dire che avesse pregi e leggerezze, certo, ma in almeno una cosa non c’era storia: nel suo campo nessuno poteva competere con lui. E guai a dubitarne, perché si finiva quasi sempre malissimo. Così, il Dio di quell’epoca non godeva forse di venerazione universale come quello odierno, ma quando il contadino seminava la terra, era di Demetra che domandava la benevolenza. E quando il guerriero si trovava faccia a faccia col nemico era ad Ares che – con tutto il cuore – chiedeva protezione.

Il mondo si divide in due categorie di persone: quelli che accettano il caos e quelli che vanno ovunque alla ricerca di segnali e coincidenze che possano spiegar loro la realtà. Curiosamente, il Dio la cui sfera di competenza era il gioco del pallone, aveva l’iniziale D e indossava il numero 10, riuscendo così nell’impresa di convincere sia gli uni che gli altri. Miracoli ne aveva sul curriculum a soli 15 anni, quando già era riuscito a evadere dal fango di Villa Fiorito, Buenos Aires, a dispetto del nome il posto peggiore che possa venirvi in mente per nascere. E lo aveva fatto portandosi sulle spalle tutta la propria famiglia, che poi era una pletora di padre, madre, due fratelli e cinque sorelle. Non un problema, per un piccolo Dio in erba. E quell’erba, infatti, lui la calcava con leggiadria, nonostante il carico crescente delle responsabilità.

Ben presto quel Dio sperimentò che – con rispetto parlando – anche lui era uno e trino. Al suo interno combattevano tre personaggi, e ognuno voleva averla vinta. C’era il meraviglioso atleta, il calciatore che aveva ricevuto dalle stelle un talento unico al mondo, a cui riusciva ogni cosa meglio che a tutti i suoi pari. Poi c’erano gli altri due, e a spiegarlo bene fu il suo amico e preparatore Fernando Signorini, che un giorno lo prese da parte e gli disse che conosceva Diego, e poi conosceva Maradona. Con Diego sarebbe andato in capo al mondo, con Maradona non avrebbe preso neppure un caffè. Il giovane Dio s’affrettò a rispondere che capiva, ma che senza Maradona non avrebbe mai lasciato Villa Fiorito, là dove il soddisfacimento della necessità è tutto ciò che un uomo può chiedere alla giornata, e il morso a un biscotto è il massimo dei sogni che può permettersi un bambino.

Tutti quelli che hanno conosciuto Diego ne hanno sempre parlato come di una persona incantevole. Compagni, avversari, allenatori. Da Bagni a Ferrara, da Sacchi a Velazquez, da Gullit a Totti, chiunque l’abbia incrociato restava incantato da una generosità che non sembrava avere confini. E che, ovviamente, lo circondava di approfittatori e parassiti, pronti a sfruttare le debolezze di un ventenne troppo ricco e troppo famoso per potersi permettere di esistere. Per Maradona, invece, era un’altra storia. Maradona non poteva, non doveva avere debolezze. Maradona era Dio, e Dio non piange, non mente, non sbaglia mai. Ora sulla schiena di quel giovane non c’era più soltanto una famiglia, ma una città, una nazione, un’intera schiera di azionisti del gioco più amato di sempre.

Il giovane Dio era chiuso in prigione. L’amore dei tifosi era un abbraccio soffocante che non gli permetteva di respirare. Il peso della sua fama era un macigno, una catasta di carte da firmare, di occasioni cui presenziare, di foto con dedica e baci e saluti e donne disposte a tutto per averlo. Ma Dio non può tralasciare nessuno. E lui accettò quel ruolo, tentando di farsi amare da tutti. La sua ora d’aria durava un’ora e mezza, dalle 15 alle 16.45 ogni domenica, compresi 15 minuti di intervallo. Ma per il resto, si trattava di una sorta di ergastolo, del tutto simile a quel lockdown che oggi ci scardina i bulloni della testa, ma con la differenza che per lui non c’era alcuna data di riapertura all’orizzonte. Così, avvenne qualcosa che al contempo era ovvio e inconcepibile. Maradona cadde. E Diego cadde con lui.

Il mondo si divide in due categorie di persone: quelli che commettono peccati e quelli che fingono di non commetterne, preferendo invece concentrarsi sui peccati altrui. Questi ultimi, soprattutto, non potevano perdonare a quel ragazzo di essersi rivelato mortale. Nella nostra tremenda paura della fine, ci siamo trovati costretti ad assegnare a Dio quella perfezione che potesse permetterci la speranza di continuare a vivere senza dover trascorrere ogni attimo a temere la più atroce delle consapevolezze. E cioè che presto smetteremo di esistere, e tutto ciò che ci infervora o appassiona un giorno perderà un senso.

Quella caduta bastò per trasformare tutto l’amore in odio. Il miele diventò veleno da un giorno all’altro, come un cielo azzurro che si fa grigio di colpo. Il Dio adesso era un impostore. Fu insultato, squalificato, rimosso. Fu arrestato e ridotto in manette come un assassino. Fu additato e costretto alla damnatio memoriae. Nessun confessore si premurò di tenere segreti i suoi peccati, che invece furono battuti ogni giorno dai giornali per i mesi a seguire. Il Dio del calcio non esisteva più. Grasso e immorale, aveva compiuto il peccato più grave, quello per il quale l’improvvisato teologo accetta la deroga alla regola del perdono: aveva mostrato la propria umana fragilità.

Il mondo si divide in due categorie di persone: quelli che hanno visto giocare a calcio Maradona e quelli che non sanno chi sia stato il più grande calciatore di ogni tempo, per distacco smisurato. L’uomo che aveva rovesciato il destino, che aveva preso a pugni la normalità, che aveva raccolto squadre povere e senza speranza dal fondo del pozzo ed era riuscito a portarle là in alto, al trionfo, da solo, con prodezze mai eguagliate. Quell’uomo oggi non esiste più. Eppure, nella zuffa di chi ancora lo ama e di chi ancora lo odia, di nuovo quell’uomo ha sovvertito tutto col più semplice dei gesti: morire. Insegnandoci ancora che un Dio mortale può aver bisogno di morire, per diventare immortale.

 

Gaetano Allegra
Gaetano Allegra
Nato a Milano l'1 giugno 1979, è giornalista da oltre 10 anni. Ha diretto due testate cartacee e pubblicato un romanzo. E questi sono gli hobby. La vita seria la passa leggendo, torturando il pianoforte e dicendo stupidaggini.

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