Milan: tanti elogi dopo la Juve, ma la mentalità è da piccola squadra

-

Cosa si può rimproverare a una squadra che esce in semifinale di Coppa Italia, pareggiando sia all’andata che al ritorno, in entrambi i casi giocando in dieci uomini, contro una corazzata come la Juventus? Molto poco, ovviamente. Soprattutto se nella gara di Torino la rosa era ridotta all’osso a causa di assenze importantissime, di fronte a un avversario che aveva in panchina cambi per tutti i gusti. Lo 0-0 maturato all’Allianz Stadium ha portato in dote molti elogi per la stoica resistenza degli uomini di Pioli e più di qualche critica ai bianconeri. Si può davvero rimproverare molto poco, nei 180′, ai rossoneri, eppure qualcosa va sottolineato più e più volte. Le due gare sono state disputate al massimo delle possibilità e i rimpianti sono solamente due: i cartellini di vario colore incassati dai vari Castillejo, Theo Hernández, Ibrahimović e Rebić e la scelta di non giocarsi il tutto per tutto nel finale della gara di ritorno.

Quando al 17′ minuto la partita è stata stravolta dal rigore sbagliato da Ronaldo e dalla follia di Rebić, il Milan non aveva altra scelta che disputare la gara che ha in effetti disputato; avendo resistito a oltranza, però, a un certo punto i rossoneri avrebbero dovuto provare a segnare, a tutti i costi. Lo 0-0 premiava la Juve e dunque non aveva senso continuare a erigere barricate sino al triplice fischio, come invece è stato. Sarebbe stato ragionevole, da parte di Pioli, impartire l’ordine di attaccare in blocco negli ultimi dieci-quindici minuti. L’allenatore del Milan avrebbe potuto alzare uno dei due centrali difensivi al centro dell’attacco a fare da boa, portando altri tre-quattro giocatori sulla linea arretrata bianconera e giocare con palle lunghe: era questo l’unico modo, per una squadra in inferiorità numerica e tecnicamente meno dotata, di tentare di creare un po’ di confusione nei pressi dell’area avversaria.

Nei minuti finali della gara, invece, il Milan aveva tutti gli undici effettivi ben dietro la linea della propria metà del campo e tentava di avanzare con il fraseggio. Il portatore di palla (nella maggior parte dei casi il regista, Bennacer) non trovava riferimenti avanzati e tendeva a tenere la sfera, perdendo il possesso senza nemmeno aver permesso alla squadra di alzare il baricentro. Il Milan aveva la possibilità di tentare il tutto per tutto anche perché, se avesse subito una rete in contropiede, poco sarebbe cambiato: i rossoneri avrebbero potuto continuare a cercare la via del gol consci del fatto che, con l’1-1, la sfida si sarebbe decisa ai rigori, senza dover passare per i supplementari, e questo era un chiaro vantaggio per il diavolo. Sbilanciarsi, anche eccessivamente, per andare alla ricerca di una palla sporca, una deviazione, un calcio di punizione o un corner era l’unica via per provare ad accedere alla finale. Ma il Milan ha preferito non provarci.

La sensazione è che alla squadra interessasse più la bella figura di uscire imbattuta dall’Allianz Stadium che il passaggio del turno. Vedere tutti i giocatori raccolti nei pressi della propria area fino al 95′ è stato stucchevole, assurdo, senza senso. E non è dipeso da una Juve irresistibile, impossibile da attaccare. Tutt’altro. Bastava una rimessa dal fondo per far salire Kjær e permettergli di posizionarsi tra Bonucci e de Ligt, incaricando Donnarumma di sparare il più lontano possibile. La mentalità è da piccola squadra, che preferisce uscire a testa alta piuttosto che rischiare per tentare un’impresa difficilmente pronosticabile. Ci sarebbe anche da ridire sulle tempistiche dei cambi effettuati da Pioli: Bonaventura tolto nel momento in cui sembrava il più lucido, Laxalt e Saelemaekers inseriti all’88’ (due giocatori dotati di grande corsa non sarebbero stati più utili prima, soprattutto rilevando due tra i peggiori in campo come Calabria e Conti?). Fosse stata una partita di campionato, il Milan avrebbe fatto una gara ideale per le condizioni in cui era messo. Essendo una semifinale da dentro o fuori, ha giocato dando per scontato di essere fuori, badando solo a non fare figuracce.

Stefano Tomat
Stefano Tomat
Nasce nel 1987 a Udine, gioca a calcio da quando ha 6 anni. Laureato in Relazioni Pubbliche e Comunicazione Integrata per le Imprese e le Organizzazioni.

MondoPallone Racconta… Ferruccio Mazzola, un cognome che pesa

        Nella giornata di martedì è scomparso Ferruccio Mazzola, fratello minore di Sandro e figlio di Valentino: due leggende del calcio italiano. Discreto giocatore in...
error: Content is protected !!