Verso #Euro2020 – 1976: come si dice “Mo’ je faccio er cucchiaio” in cecoslovacco? Chiedere la traduzione ad Antonin Panenka

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Francesco Totti nasce nel 1976, l’anno del talento, nel vero senso della parola. Oltre a lui vedono la luce futuri campioni del calibro di: Alessandro Nesta, Ivan Ramiro Cordoba, Patrick Vieira (Campione d’Europa 2000), Clarence Seedorf, Luis Nazario Ronaldo, Andriy Shevchenko, Patrick Kluivert, Alvaro Recoba, Ruud Van Nistelrooy, Traianos Dellas (Campione d’Europa 2004), Marcelo Gallardo. Totti fa impressione più degli altri. Proprio lui, proprio nel ’76? Come se Antonio Stradivari fosse richiamato dal suono del proprio violino fin nella placenta. Perché? Semplice, nel 1976 Antonin Panenka ha inventato il “cucchiaio”, che non è una posata da tavola ovviamente, ma nella storia del football diventerà il calcio di rigore più geniale che esista. Per Francesco Totti, bandiera immortale della Roma e dal calcio italiano, una carriera intera girerà intorno a quello che, all’epoca, venne chiamato con il nome del suo inventore: “il Panenka”. Occhi chiari, taglio di capelli sgangherato fatto in casa, baffoni calanti sul mento e folti da sergente della steppa. È il ritratto di questo onesto centrocampista del Bohemians Praga, che farà la storia del calcio cecoslovacco.

È l’anno del talento in tutti i sensi, nell’editoria italiana nasce il 14 gennaio il quotidiano “la Repubblica” e al cinema l’estro del maestro Bernardo Bertolucci partorisce quel capolavoro erotico che è “Ultimo tango a Parigi”. Inizialmente condannato dalla Corte di Cassazione e censurato, addirittura Bertolucci e Marlon Brando, insieme al produttore e allo sceneggiatore di quel film presero due mesi di prigione con la condizionale (pena poi sospesa). Offesa al comune senso del pudore, Bertolucci privato anche dei diritti politici per cinque anni. Tutte le copie dovevano essere bruciate, per fortuna il maestro ne conservò una a casa sua. Il resto, è storia. In California, dall’altra parte dell’oceano, a Cupertino Steve Jobs, Ronald Wayne e Steve Wozniak fondano la Apple: rivoluzioneranno il mondo, convertendolo al digitale. Il talento si manifesta anche nel tennis, in quell’anno d’oro Adriano Panatta conquista il 4°posto nel ranking ATP grazie al successo agli Internazionali d’Italia, al Roland Garros e alla Coppa Davis in Cile con una squadra fortissima: Nicola Pietrangeli (capitano non-giocatore), Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli. Il talentuoso James Hunt batte di un punto, al termine di un mondiale di Formula 1 combattutissimo, il rivale in pista Niki Lauda e diventa campione del mondo. Non poco condiziona l’incidente occorso all’austriaco sul circuito del Nurburgring, in cui esce vivo per miracolo dall’abitacolo dell’auto in fiamme. Nonostante le ferite e le ustioni multiple al volto, il pilota tornò in pista 42 giorni dopo l’incidente e, tra mille sofferenze, si giocò il campionato fino alla fine.

Il mondo è in piena Guerra Fredda, diviso in blocco occidentale e blocco comunista, l’Italia e gli Stati Uniti vivono mesi di agitazione, dovuti allo scandalo Lockheed, una delle più importanti industrie aerospaziali che aveva corrotto politici e militari per vendere i propri prodotti. Il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, fu costretto a dimettersi. In Argentina il generale Jorge Videla prende il potere con un un colpo di stato militare e destituisce Isabel Peròn, dando vita al periodo più buio della storia albiceleste, ferita a morte dai 30000 desaparecidos di cui ancora oggi, purtroppo, non si sa nulla. E se oggi si parla di Coronavirus, nel 1976 purtroppo si parlava di Ebola, che venne descritto per la prima volta, dopo l’epidemia di febbre emorragica scoppiata nel sud-Sudan e nello Zaire.
Il 25 settembre nascono, quasi casualmente, gli U2: il batterista Larry Mullen Jr. appende un volantino nella sua scuola di Dublino in cerca di compagni con cui suonare dopo le lezioni ed ecco che prende vita il più grande gruppo musicale irlandese della storia. Se non è talento questo…

Tornando calcio, il 1976 è anche l’anno del settimo e ultimo scudetto del Torino, vinto dai granata sulla Juventus all’ultima giornata con due punti di distacco. Ventiquattro anni dopo Superga. In panchina Gigi Radice, in attacco i gemelli del gol Graziani-Pulici, quest’ultimo capocannoniere con 21 gol. Quella squadra era una machina perfetta, sorvegliata da Castellini in porta, amministrata da Pecci a centrocampo, innescata da Claudio Sala e Zaccarelli e finalizzata dai due bomber.

Non se la passa altrettanto bene la Nazionale italiana, uscita con le ossa rotte dal mondiale del 1974 in cui l’immagine che resterà alla storia è solo il vaffa di Giorgio Chinaglia a Valcareggi nel momento della sostituzione contro Haiti. L’Italia fatica a ricostruirsi e disputa un girone di qualificazione agli europei disastroso. L’uomo nuovo alla guida è il sessantottenne Fulvio Bernardini, che farà da Ct unico di tutte le Nazionali, coadiuvato da Enzo Bearzot per l’Under 23 e da Azeglio Vicini per l’Under 21. Bearzot, già assistente di Valcareggi, fino al 1977 sarà anche coinquilino di Bernardini sulla panchina azzurra. Anzi, diciamo che di fatto l’allena già lui, mentre il buon Fulvio fa da coordinatore. I frutti del suo lavoro germoglieranno con calma, ma adesso le cose sono difficili, anche perché il campionato italiano, con il blocco agli stranieri dopo la disfatta con la Corea nel ’66, si è chiuso in sé stesso, ha perso di tono rispetto alle altre leghe e non vive anni brillanti. Inserita nel Gruppo 5 con Olanda, Polonia e Finlandia, l’Italia parte benissimo e finisce malissimo al de Kuip di Rotterdam contro i tulipani: andiamo in vantaggio dopo appena 4’: assist dalla sinistra Antognoni e colpo di testa non irresistibile, ma vincente, di Boninsegna. È già fatta? Nemmeno per sogno, i tulipani ci mettono 20’ a riportarci sulla terra: Resenbrink pareggia in spaccata, poi tocca al professor Cruijff affibbiarci la nota con un tocco di rapina (in sospetta posizione di fuorigioco, che l’arbitro convalida), è il 2-1. Gli azzurri sono sui blocchi, non ne hanno più e assistono impassibili all’assalto oranje. Il 3-1 che ci seppellisce arriva a 10’ dalla fine e ci vede come omini statici da calcio balilla. Neeskens, galantuomo, serve l’assist a Cruijff che mette la doppietta personale e ringrazia. Meritato, in campo c’era una sola squadra. Quella con la maglia arancione. Da lì in poi, solo vacche magre, unica vittoria di misura in Finlandia e pareggio a reti bianche con la Polonia che ci manda a casa. Nell’ultima gara del girone, ci consoliamo battendo a Roma l’Olanda 1-0, punizione di Franco Causio al 20’ e inzuccata vincente di Fabio Capello, ancora lui, l’ammazza-grandi. L’uomo che nel ’73 aveva violato il sacro tempio di Wembley per la prima volta nella storia azzurra. Tutti a casa e rimandati a settembre, per le qualificazioni al mondiale del ’78 in Argentina.

L’Olanda, dunque, alla fase finale di un europeo per la prima volta, ma tutti i riflettori sono sulla Germania Ovest, lo squadrone tedesco ha vinto in Belgio nel ’72, si è laureato Campione del Mondo in casa nel ’74 ed il blocco del Bayern Monaco, 2/3 di quella nazionale, ha portato a casa le ultime tre Coppe dei Campioni. Se c’è una favorita, eh beh… è la squadra di capitan Kaiser Franz e compagni. E infatti nel girone di qualificazione esce dominatrice e imbattuta, 3 vittorie e 3 pareggi contro le non irresistibili Grecia, Bulgaria e Malta. Olanda e Germania, l’ultima finale mondiale non mente, il calcio in Europa, in quel momento, sono loro. L’ipotesi di una rivincita in finale è quasi lapalissiana.
Ai quarti, infatti, i panzer tedeschi liquidano la Spagna (1-1 all’andata e 2-0 al ritorno), i tulipani asfaltano addirittura il Belgio (5-0 e 2-1, per un complessivo 7-1), ma ci sono altre due forze da tenere in considerazione. La Jugoslavia, che supera il Galles (2-0 e 1-1) e la Cecoslovacchia, la quale, dopo aver primeggiato in un girone con la frizzante Inghilterra di Kevin Keegan, eliminandola, dà il benservito anche all’Unione Sovietica, un habitué della competizione (2-0 e 2-2). Una sfida che, per quegli anni, voleva dire ben più di un mero risultato sportivo. Era la nuova idea di “socialismo dal volto umano”, nata dodici anni prima dalla Primavera di Praga con Alexander Dubcek, che si era fatta largo e si contrapponeva al comunismo ferreo di Leonìd Brèžnev il quale, infatti, non gradiva e fece arrestare sia Dubcek sia il maratoneta Emil Zatopek, quest’ultimo spedito ai lavori forzati. Mandare a casa i russi del colonnello Lobanovskyi e del blocco della Dinamo Kiev, per i cecoslovacchi, in quel momento, era una soddisfazione impagabile.

La fase finale, quindi, viene assegnata questa volta alla Jugoslavia, due sole le sedi: lo Stadion Maksimir di Zagabria ed il Marakanà di Belgrado. Delle quattro forze in campo, in pochi sarebbero disposti a puntare sugli uomini di Vaclav Václav Ježek, anche perché quasi nessuno li conosceva. Una norma interna della federazione stabiliva che i calciatori non potessero emigrare all’estero per giocare, finchè non avessero compiuto i 32 anni di età. Praticamente, a fine carriera per l’epoca. Lo stesso Panenka ne usufruirà, approdando al Rapid Vienna nell’’81 e vincendo due campionati e tre coppe d’Austria. Per la finale, una novità: al termine dei 120’ la gara non si ripete, ma ci si sfida nel calciare 5 rigori a testa. Chi sbaglia di meno, vince.

La prima semifinale mette di fronte il 16 giugno, al Maksimir di Zagabria, proprio i semi-sconosciuti cechi di fronte alla grande Olanda di Cruijff e Krol, Neeskens e Rep, Resenbrink e van de Kerkhof. Sul campo quella sera cade una pioggia battente, un nubifragio estivo che rende il campo una palude. E, si sa, sul bagnato il talento cede il passo alla grinta. Al 19’ la gara si sblocca: punizione di Panelka e testa di Anton Ondruš, il difensore la infila all’incrocio dei pali. Gli olandesi non hanno furia agonistica del mondiale e ringraziano la sorte per il pari. Gentile concessione dello stesso Ondruš al 73’ e la frittata è cinematografica: su un cross senza pretese di Ruud Geels, il nerboruto libero ceco interviene sbilenco e la sfera carambola tra l’incrocio dei pali e l’incolpevole portiere Ivo Viktor, autogol. L’Olanda s’illude, ma deve ricredersi subito, perchè Neeskens viene espulso tre minuti dopo e Cruyiff, diffidato, si fa ammonire e squalificare per un’eventuale finale. Con il campo pesante e 30’ in più da giocare, per gli uomini di Knobel trattasi di agonia. Così, al 9’ del secondo supplementare, Veselý spedisce un lungo cross sulla testa dello smarcato Nehoda, che insacca alla sinistra del portiere. Van Hanegem, come se non bastasse, si fa buttare fuori subito dopo e lascia l’Olanda in 9! Veselý al 118’ elude il fuorigioco arancione e s’invola verso la porta, evita il portiere in uscita e sigla il 3-1 che porta i cechi in finale.

Il giorno dopo, a Belgrado, va in scena l’altra semifinale tra i padroni di casa della Jugoslavia e la potente Germania. Stavolta la partita è bellissima, di ben altro tono rispetto alla precedente. I campioni del mondo sono gli stessi di sempre del ciclo vincente. Ne manca solo uno e la sua assenza si fa sentire: Gerd Müller, che dal 1974, al termine del mondiale vinto dalla Germania Ovest, non ha più indossato la maglia della nazionale. Helmut Schon preferirebbe, allora, il bomber del Kaiserslautern, Klaus Toppmöller, ha pure segnato contro la Spagna. Questi, però, resta vittima di un incidente stradale proprio alla vigilia della fase finale. Il Ct, allora, gioca il jolly, buttando nella mischia il giovane centravanti del Colonia, Dieter Müller, che fa il suo debutto in Nazionale. Non lo dimenticherà più. Il nome vi dice già qualcosa.

Dopo appena mezz’ora di gioco, anche qui i pronostici sembrano spazzati via, gli slavi conducono addirittura per 2-0. Ma com’è possibile? Al 19′ Danilo Popivoda buca al centro la difesa tedesca, supera nientemeno che Beckenbauer e, scivolando, calcia a rete spiazzando Maier in uscita. Gli jugoslavi si galvanizzano e creano altre occasioni, sventate da Sepp Maier, il quale, però, non è così impeccabile al 30’, quando un cross arriva dalla destra, lui liscia il pallone e consente all’eterno Džajić, quello che per poco non impedisce all’Italia di vincere l’Europeo nel ’68, di appoggiare la palla in rete. Primo tempo inguardabile, ma mai dare per vinti i tedeschi. Schon mescola le carte, al rientro dagli spogliatoi inserisce Flohe per Danner e ci prende, perché al 64’ lo svantaggio viene dimezzato proprio dal neo-entrato, con un tiro dalla distanza deviato da un compagno. Al 79’ la seconda mossa vincente: il Ct butta dentro il giovane Müller e toglie Wimmer (autore del secondo gol nella finale del ’72). La mossa paga, eccome: dopo solo 3’ Bonhof batte un corner, la difesa avversaria guarda per aria e la palla trova proprio l’attaccante del Colonia smarcato all’altezza dell’area piccola, colpo di testa e gol, rimonta completata. La bilancia del match pende ora tutta dalla parte dei campioni del mondo. I supplementari scivolano via stanchi, i rigori sembrano l’unica via, ma… al 115’ la storia cambia: Flohe dalla linea di fondo trova Erich Beer sul palo opposto, il difensore tocca palla all’indietro per Müller, che scaglia di prepotenza il suo destro sotto la traversa, 3-2! La Jugoslavia tenta un disperato recupero, ma all 119’ un potente tiro di Bonhof sbatte contro il palo e va a cercare i piedi dell’uomo della serata, Dieter Müller, che appoggia il 4-2 e la tripletta personale che vale la finalissima. Se ti chiami Müller di cognome e sei tedesco, non può che andar così evidentemente.

La domenica sera del 20 giugno, allo stadio Crvena Zvezda di Belgrado (che in futuro sarà dedicato al CT Rajko Mitić) ci sono solo 35 mila spettatori. Una miseria per una finale di coppa, se consideriamo che l’impianto può contenerne più di 100.000. Ma i prezzi dei biglietti sono alle stelle, infelice sintesi tra standard occidentali e capacità di portafogli ancorata al blocco orientale degli abitanti di Belgrado, che non sono nemmeno di manica larghissima e, oltretutto, nemmeno possono vedere la propria nazionale in campo. Non sanno cosa stanno per perdersi.

I tedeschi, ancora svuotati dall’adrenalina della semifinale, partono distratti: all’8’ Berti Vogts (futuro Ct tedesco e Campione d’Europa nel ’96) perde un pallone sanguinoso nella propria area di rigore e, sugli sviluppi Švehlík segna l’1-0. Uno schiaffone per Beckenbauer e compagni, salutare, perché si svegliano. Nel loro momento migliore, però, subiscono il raddoppio: punizione angolata, Marián Masny calcia, Beckenbauer di testa ricaccia la palla lontano, ma la raccoglie sui piedi Dobiaš, che non fa complimenti e batte Maier per la seconda volta con un tiro angolato. È il 25’, ancora una volta due gol incassati in mezz’ora, la difesa non è proprio il punto forte degli uomini di Schon in questa rassegna. Che questi cecoslovacchi liquidino prima l’arancia meccanica di Cruijff e poi i panzer di Kaiser Franz? Che succede (direbbe Morgan)?

Come recita, però, il mantra? Mai dare per vinti i tedeschi, mai dare per vinti i tedeschi. Ripetiamo insieme. Infatti, passano solo tre minuti e la partita è già riaperta: cross di Rainer Bonhof e volèe di destro di Müller, stavolta titolare a ragion veduta. Nel secondo tempo la Germania Ovest è padrona del campo, Viktor fa gli straordinari, mall’89’ capitola: corner di Bonhof, assistman meraviglioso, e colpo di testa di Hölzenbein. 2-2, la gara va ai supplementari. Ancora.

Questa volta, però, non ci sono i fuochi d’artificio delle altre partite, la stanchezza del torneo si fa sentire, il punteggio non cambia. Si va ai calci di rigore, per la prima volta la coppa verrà assegnata così. I cecoslovacchi sono dei cecchini, non ne sbagliano uno. I tedeschi, solitamente freddi, inciampano sul tiro dagli undici metri di Uli Hoeness, che manda alle stelle il quarto penalty. Tocca ad Antonin Panenka, se segna è fatta. Nel momento cruciale della storia sportiva, politica e sociale di un’intera nazione non si può fallire, ci si aspetta un calcio forte e sicuro, un tiro secco. Sepp Maier su quella palla non ci deve arrivare. Lì nasce il colpo di genio, il rischio, l’azzardo che danza a braccetto con il seme della follia. Prende la rincorsa, raggiunge il pallone e… il suo tiro passa alla storia: tocco morbido con la punta del piede sotto al pallone, il collo della scarpa accompagna dolcemente la traiettoria. Il tiro è centrale, ma Maier è già per terra in tuffo, la palla fluttua lentamente in porta… è gol. Panenka “j’ha fatto er cucchiaio”, la Cecoslovacchia è Campione d’Europa per la prima volta nella sua storia! Cinque edizioni, cinque squadre differenti sul trono più alto del Vecchio Continente pallonaro e questa volta, contro ogni pronostico, vince Davide che batte Golia. Gran miracolo di Jezek, che ha abbinato il virtuosismo dei suoi talenti ad una rigida applicazione di schemi occidentali, corroborata da una condizione fisica eccellente. Glorificata dal gesto estremo di Panenka. I cecoslovacchi, quando c’è da fare la rivoluzione, il coraggio l’hanno sempre avuto. Anni dopo, all’europeo del 1996, la Cecoslovacchia (nel frattempo diventata Repubblica Ceca, dopo la scissione del ’93 con la Slovacchia) tornerà in finale e ancora contro la Germania e lo farà, ancora una volta, grazie ad un cucchiaio. Quello di Karel Poborsky, stavolta su azione: il centrocampista dello Slavia Praga e promesso sposo del Manchester United, supera tre avversari sulla trequarti e uccella dal limite dell’area il portiere del Portogallo in uscita, Vitor Baia, che può solo voltarsi e guardare la palla morire in rete. Quel gol-capolavoro vale la semifinale contro la Francia. Il resto, ve lo racconteremo poi.

Come nasce quel colpo, chi gliel’ha messo in testa ad Antonin di rischiare una cosa del genere? Presto detto, negli anni di nazionale, alla fine di ogni allenamento, Panenka e Viktor si sfidano ai calci di rigore. Premio finale, una barretta di cioccolato e un bicchiere di birra. Viktor è uno dei migliori portieri in circolazione e, seduta dopo seduta, a Panenka quel giochino diventa caro, perché perde sempre e deve pagare lui la merenda. La notte non ci dorme, ma la notte porta anche consiglio e allora Panenka ha l’intuizione. La prossima volta, al termine della rincorsa invece del solito tiro forte gliela metterà morbida. Vediamo se la prende anche stavolta. L’idea funziona, Antonin torna a metter su peso, perché adesso è lui il vincitore, mangione di cioccolata e birra. Deve, però, perfezionarla e comincia a provarla anche nelle partitelle contro formazioni minori. Ne diviene un esperto, fino al culmine della finale europea, in cui anche Sepp Maier si deve inchinare e con discreto fastidio. La stampa fa del suo, mai ha visto una roba del genere e la monta come una mancanza di rispetto. Quando ci mettiamo, noi giornalisti sappiamo far danno, oltre all’epica. Panenka ne tirerà 30 di rigori così, ne sbaglierà soltanto uno in amichevole. Colpa del campo fradicio e inzuppato, che costrinse un portiere sconosciuto a non muoversi per non infangarsi. E così parò il cucchiaio all’inventore del cucchiaio.

“Se avessi potuto, l’avrei brevettata quell’esecuzione. Ma, se l’avessi sbagliata, mi avrebbero spedito a lavorare in fabbrica per trent’anni di fila”
 (Antonin Panenka)

Curiosità finali, per gli amanti di serie tv e film cult, il 1976 è l’immaginario anno di nascita di Barney Stinson (interpretato dall’attore Neil Patrick Harris), personaggio irriverente e malato di sesso della sit-com americana How I Met Your Mother ed è lo stesso anno di fantasia del primo incontro tra Rocky Balboa e Apollo Creed nella fortunata e omonima serie cinematografica “Rocky”, protagonista Sylvester Stallone.

Roberto Tortora
Roberto Tortora
Laureato in Scienze della Comunicazione, a Salerno. Master in Giornalismo IULM, a Milano; Giornalista professionista.

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