Eugenio Bersellini e un calcio che non esiste più

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Perché un milanista dovrebbe scrivere un ricordo di Eugenio Bersellini? Per un motivo semplice, in fondo: essere stati testimoni oculari, allo stadio, di quel periodo, in un’età nella quale si era già in grado di capire abbastanza bene di calcio e similia. Ai tempi si andava con gli amici tutte le domeniche, milanisti assieme agli interisti, a vedere le rispettive squadre (per un paio di stagioni ci trovammo con in tasca entrambi gli abbonamenti). Vero che oggi in Rete si trova tutto: ma è altettanto vero che San Siro con solo due anelli, senza posti numerati, con le file per entrare due ore prima, nel giorno del derby e delle partite con la Juventus, per potersi sedere in rettilineo, e le lunghe attese magari sotto la pioggia, in piedi, con gli ombrelli, sono cose che, se non le hai vissute, diventa difficile farle comprendere, più che raccontarle.

Difficile far capire anche quanto fosse grande quel calcio: un campionato senza stranieri, ma capace di esprimere una Nazionale in grado di battere, nel 1978, in casa sua, l’Argentina dei generali, futura campione del mondo (con qualche aiuto, come fu scoperto poi), sfrattandola dallo stadio di Buenos Aires per la seconda fase di quella competizione. Bersellini incarnava quello spirito: venne all’Inter nella stagione 1977/78, successiva a quella del ritiro di Sandro Mazzola, e nell’ultima di Giacinto Facchetti, vale a dire gli ultimi superstiti dell’Inter di Herrera e Moratti. Anni difficili, quelli della seconda metà dei ’70, per i tifosi nerazzuri (come per quelli rossoneri, aggiungiamo noi), con la Juventus che vinceva scudetti in serie, rompendo addirittura (nella stagione 1976/77) il proprio digiuno europeo, portando a Torino la Coppa UEFA.

Bersellini non era un allenatore blasonato: nel campionato precedente era, anzi, retrocesso, alla guida della Sampdoria. Eppure, Fraizzoli decise di puntare su di lui, nonostante il curriculum non certo importante. “Genio” aveva, dalla sua, carattere (memorabili certe sue esultanze o, viceversa, arrabbiature in panchina) e attenzione alla preparazione fisica (una novità per quei tempi; una “roba da olandesi”, ma capace di convincere la stampa sportiva di allora a coniare, per lui, il soprannome di “Sergente di ferro”).

Il tecnico di Borgotaro costruì la sua Inter in un paio di stagioni: arrivarono prima Altobelli e Scanziani da Brescia e Como e, in seguito, Beccalossi, Pasinato e Carletto Muraro. Le avvisaglie di quello che sarebbe stata l’Inter, prima degli arrivi di Beccalossi & C., si vide nel famoso derby pareggiato 2-2 in extremis grazie a due reti di De Vecchi, che spianarono al Milan la strada della Stella nella stagione 1978/79: quella sera, alla Domenica Sportiva, commentando l’incontro, il compianto Beppe Viola predisse un futuro radioso per la Beneamata. La quale, infatti, nella stagione successiva (1979/80), si aggiudicò il dodicesimo titolo.

Poteva essere l’inizio di un ciclo: non lo fu, per vari motivi, uno dei quali fu l’apertura, dalla stagione successiva agli stranieri, dove altre squadre (una su tutte la Roma) pescarono meglio delle milanesi. Nei due anni successivi, “Genio” Bersellini non andò oltre, in campionato, a un quarto e un quinto posto. Tuttavia, ci regalò l’emozione di arrivare a un passo dalla finale di Coppa dei Campioni (qualcosa di irraggiungibile, in quegli anni difficili per il calcio italiano), dove venne eliminato nel doppio confronto dal Real Madrid, battuto 1-0 nel ritorno, in una partita che ascoltammo per radio (ai tempi, la diretta televisiva per la zona di Milano era esclusa) con il cuore in gola, vincendo un’altra Coppa Italia (a spese del Torino) nella sua ultima stagione in nerazzurro.

Dopo l’esperienza milanese, il tecnico andò proprio al Torino, per poi tornare a Genova (sempre sponda Sampdoria), dove vinse una Coppa Italia (1984/85). Bersellini proseguì poi la propria carriera su varie panchine in serie A e B, facendo un’esperienza anche all’estero (in Libia), e concludendo la propria carriera (neppure tanti anni fa) nel 2006, in Serie D. Un uomo di un calcio d’altri tempi, insomma: forse meno spettacolare, fatto soprattutto di trasmissioni alla radio e di (poche) immagini in bianco e nero, di attese, di partite viste in piedi sotto la pioggia, ma non per quello meno affascinante. Addio Eugenio, e grazie per le emozioni che ci hai regalato.

 

Silvano Pulga
Silvano Pulga
Da bambino si innamorò del calcio vedendo giocare a San Siro Rivera e Prati. Milanese per nascita e necessità, sogna di vivere in Svezia, e nel frattempo sopporta una figlia tifosa del Bayern Monaco.

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