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Le Olimpiadi al femminile: storia di una parità quasi raggiunta

Lo sport femminile nel mondo è in crescita e lo dimostrano i numeri della prossima Olimpiade che si disputerà a Rio de Janeiro dove circa il 45% degli 11243 atleti sarà di sesso femminile (una percentuale in crescita rispetto a Londra 2012 dove si attestava a poco meno del 44%).

La pratica sportiva femminile affonda le sue radici nel 1900 a.C. e vi sono delle testimonianze di come lo sport fosse praticato dalle donne fin dall’antichità anche se alle stesse non era concesso di gareggiare: lo stesso Pierre De Coubertin, ignorando che le donne avessero partecipato ai Giochi di Olimpia, affidò a queste una semplice funzione ancillare, ovvero la sola l’incoronazione dei vincitori. Una maratoneta, tale Stamati Revithi, si ribellò a questo status quo e cerco di partecipare alla maratona probabilmente sotto il soprannome di Melpomene. Ufficialmente non le fu concesso di gareggiare perché presento la richiesta per la partecipazione alla gara ma secondo gli storici olimpici David Martin e Roger Gynn il vero problema era il suo sesso: Melpomene decise di correre comunque e alcuni ufficiali dell’esercito greco la fermarono durante la gara a Parapigmata nella città di Atene prima di entrare allo stadio.

La prima Olimpiade aperta alle donne fu quella di Parigi del 1900 dove la prima campionessa olimpica della storia fu la tennista Charlotte Cooper. Dopo questo episodio ci fu una donna che decise di sfidare il sistema e il mondo. Costei era la francese Alice Milliat che nel 1921 decise di fondare la Federazione Sportiva Femminile Internazionale con la quale riuscì a far riconoscere la figura della donna nello sport cosiddetto agonistico: nel 1922 e nel 1926 furono organizzati, a Parigi e a Göteborg, i Giochi mondiali femminili. Il loro successo e il loro appeal fu tale che il Comitato Olimpico Internazionale decise di ammettere la partecipazione delle donne ai Giochi di Amsterdam del 1928. Un giornalista del tempo definì con disprezzo le partecipanti all’Olimpiadi battezzandole atletesse.

Lo stesso De Coubertin era contrario alla partecipazione delle donne alle gare olimpiche, dato che disse nel 1912: “Un’Olimpiade femminile non sarebbe pratica, interessante, estetica e corretta.” Anche dopo anni il padre delle Olimpiadi moderne ribadì il suo pensiero: “Per quanto riguarda la partecipazione delle donne al gioco io rimango contrario. Esse sono state ammesse a un numero sempre crescente di prove, contro la mia volontà.”

Nelle loro prime apparizioni a cinque cerchi le donne non gareggiarono se non in discipline come tennis e tiro con l’arco e solo attraverso deroghe, come nei Giochi della V Olimpiade di Stoccolma dove le donne poterono gareggiare nelle gare di nuoto. Sempre in Nord Europa, durante le Olimpiadi di Helsinki del 1952, solo una metà dei paesi partecipanti inviò una rappresentanza femminile: la svolta definitiva si ebbe nel 1968 ai Giochi di Città del Messico dove ben 845 atleti su 7.200 erano donne. Ormai il sasso era stato lanciato e quella manifestazione segnò un punto di non ritorno e di crescita tecnica del movimento sportivo femminile. Un’altra rivoluzione nella storia delle Olimpiadi fu nei Giochi di Atlanta del 1996 ad Atlanta quando per la prima volta parteciparono anche le donne musulmane, partecipazione che porterà nei Giochi di Londra del 2012 la prima partecipazione dal 1984 per le atlete del Qatar e la prima medaglia al femminile per l’Afghanistan con la giovane pugile Sadaf Rahimi.

Tale crescita è ancora oggi ben visibile e basta guardare le percentuali di crescita della presenza femminile alle Olimpiadi (2% nel 1912, 12% nel 1968 e 45% nel 2016) per capire come almeno il CIO cerchi di rispecchiare lo spirito del tempo e non escludere le donne dalle gare, anzi favorendo politiche inclusive a livello sportivo in molti paesi africani e del Medio Oriente. Lo sport, come sempre, è chiamato a dare un segnale forte a livello sociale e la competizione a cinque cerchi da anni sta lottando per l’uguaglianza dei sessi in campo agonistico. E ciò non può essere che un bene.