Francia 2016 – Fernando Santos porta la Grecia in finale

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“Tra essere belli ma a casa e brutti qui, preferisco essere brutto”. 

E dagli torto.
Se il Portogallo è ancora qui, il merito è di Fernando Santos; se è brutto, pure. Sì, il Portogallo è innegabilmente brutto, ma è qui: qui a prendersi i peggio insulti, qui a pareggiare cinque partite su sei nei 90 minuti, qui a fare addormentare gli appassionati nei primi 45, qui ad attrarre l’odio degli amanti del bel calcio, qui a mostrarti Quaresma in prima serata. Sì, è qui per il tuo dolore, ma con strategia, ordine e un pizzico di cinismo a tinte sadiche. Tutto si può dire, ma non che il Commissario Tecnico lusitano non abbia le idee chiare e solidissime basi tattiche a plasmare il suo lavoro; e se c’è una cosa che questa contestata ma quantomai avvincente edizione degli Europei di calcio ci ha mostrato è che determinate partite le vincono gli allenatori.
Se Pellè (posateria a parte) ha insegnato a tutti a fare il centravanti, è merito di un allenatore. Se c’è Höwedes schierato in difesa a tre, è merito di un allenatore. Se segna Armando Sadiku, è merito di un allenatore. Se Kari Arnason spizza di testa all’indietro da rimessa lunga, è merito di un allenatore. E, a maggior ragione, se William Carvalho uccide la verve della Croazia, è merito di un Signor allenatore.

Fernando Santos sa cosa vuole vedere in campo, ha ben chiara in testa l’intelaiatura della sua squadra e utilizza ogni suo uomo in nome della funzionalità. Il lisboeta non dice semplicemente al suo centrocampista d’incursione di sacrificarsi un po’ di più, no, lui lo prende e lo incastra nel suo concetto di gioco, nello stesso modo in cui un bambino cocciuto martella il blocchetto quadrato nella formina tonda fino a farcelo entrare. La partita vinta tatticamente contro il Galles è lì a dimostrarlo: il centrocampo lusitano è un nugolo di giocatori schierati, invisibili e in continua corsa per vincere la battaglia numerica col 3-5-2 di Chris Coleman. Tutti sacrificati sull’altare del pragmatismo. Adrien Silva imposta pochissimo, João Mário sbaglia gli ultimi passaggi, Nani non tocca palla per il 75% della gara, Renato Sanches è un pendolino: la qualità e la tecnica portoghesi non lasciano il segno, ma si fanno da parte in virtù della coesione, del concetto di squadra e del sacrificio. Non conta che in squadra tu abbia uno dei più grandi giocatori della storia, perché probabilmente nella mente di Santos ha la precedenza la funzione di rottura di Danilo Pereira.

È un uomo quadrato, il vecchio Fernando, laureato in ingegneria (che le due cose siano collegate?) e capace di trasformarti il più talentuoso trequartista in Christian Poulsen. Plasma un Portogallo in cui i dieci di movimento diventano un uomo solo, una squadra spiacevole alla vista, povera di spunti e qualità, con il CR7 più nervoso e disarmonico che il mondo ricordi, ma con due spalle larghe come la porta. Ed è proprio per questi singoli aspetti che non si può parlare di “fattore c”: i portoghesi sono in finale grazie alla loro filosofia di gioco detestabile e antiestetica. Il Portogallo di Fernando Santos è la Grecia di Fernando Santos! Se l’affermazione vi sembra fuori luogo, andiamo a vedere come si schierano Ronaldo e soci: una difesa a quattro bilanciata e con elementi di esperienza, un imprescindibile mediano basso, niente prime punte e tutti i giocatori dalla metà campo in su che lottano su ogni pallone. Tutto ciò ricorda moltissimo la Grecia del Mondiale 2014.

Procediamo per gradi: la retroguardia. I quattro uomini visti nelle partite della fase a eliminazione, quella in cui Santos ha portato al massimo la sua concezione di gioco, sono la fotocopia dei greci: un terzino destro con tendenza a bilanciare (Torosidis/Cédric Soares); due centrali tecnici, focalizzati sull’obiettivo e sempre puntuali nell’intervento (Fonte, Pepe/Manolas, Papastathopoulos); un terzino mancino con verve offensiva e un sinistro esplosivo (Raphaël Guerreiro/Holebas). La grande prova di Bruno Alves dimostra ancora di più l’attenzione che Santos pone sul reparto arretrato, insieme a una delle mosse più sagaci del tecnico: preferire Cédric a Vieirinha, che ha dimostrato di soffrire molto abbassato a terzino.

Il centrocampo vede invece una grande somiglianza tra i due mediani (Maniatis o Katsouranis/William Carvalho o Danilo Pereira), sempre bassi, sempre sulle caviglie di chi imposta il gioco. Allo stesso modo, anche gli elementi più talentuosi prendono parte alla lotta, così in Brasile, così in Francia. Adrien Silva è Karagounis, João Mário resta basso come Kone o Christodoulopoulos, Renato Sanches fa la spola come Samaras. Per quanto riguarda l’attacco, la Grecia di punte pure ne aveva eccome, Mitroglou in primis, molto spesso utilizzate per facilitare gli inserimenti. Dall’altra parte, però, Santos ha giocato le due partite più prolifiche (contro Costa d’Avorio e Costa Rica) senza riferimenti offensivi, esattamente come questo Portogallo che ha dovuto fare di necessità virtù.

Le somiglianze tra le due squadre esistono eccome, sono sorelle diverse, ma allo stesso tempo identiche. Perché non c’è differenza se tra i giocatori a sua disposizione c’è João Moutinho o Giannis Fetfatzidis, André Gomes o Andreas Samaris, Eliseu o Giorgos Tzavellas, il timbro di fabbrica di Fernando Santos viene prima di tutto. Un timbro apposto sulla Polonia e sulla squadra più qualitativa d’Europa, poi marchiato anche su Bale e soci. Un timbro che da Atene è tornato a Lisbona. L’unica differenza tra Portogallo e Grecia è che gli ellenici un Europeo l’hanno vinto. Sta all’allenatore che prese proprio il posto di quel tal Rehhagel mantenersi brutto abbastanza da alzare il trofeo.

Francesco Piacentini
Francesco Piacentini
Pavese classe '91, laureato in scienze politiche, per lui lo sport è uno specchio su cui si riflette la storia di un popolo. Stregato dal calcio inglese e greco, ama la politica, l'heavy metal e il whiskey.

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