God is dood

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Dio è morto. Quello del calcio, perlomeno. Ed è strano parlarne solo oggi (con colpevole ritardo, me ne dolgo), per giunta nel giorno in cui chi è credente festeggia invece una Resurrezione. Ma Johan Cruyff è stato una divinità, una divinità vera e propria, per almeno un trentennio: prima da calciatore, poi da allenatore. L’importanza che la figura del 14 ha avuto per il Gioco è semplicemente spaventosa, enorme, quasi ineffabile nella sua assolutezza. Cruyff ha cambiato il pallone. E l’ha fatto usando il cervello ben prima dei piedi.

Del resto è stato il mantra della sua vita. Spesso, infatti, il Profeta del Gol ha spiegato che – a suo modo di vedere – la caratteristica più importante di un calciatore bravo non sono i piedi buoni, l’atletismo eccellente o la grinta ma il quoziente intellettivo calcistico; la conseguenza più diretta di questa visione era la centralità che avevano i fondamentali del passaggio e del controllo di palla nel suo pensiero.

Il calcio consiste fondamentalmente in due cose. La prima: quando hai la palla, devi essere capace di passarla correttamente. La seconda: quando te la passano, devi saperla controllare. Se non la puoi controllare, tanto meno la puoi passare.
Johan Cruyff

Certamente non è stato il primo grande cervello calcistico associativo in assoluto ma senza dubbio è stato il più rivoluzionario: le immagini dell’Olanda del 1974 e del suo Ajax dell’inizio degli anni ’70 hanno fatto epoca e sconvolto il mondo del pallone di allora, consegnando tutta una serie di revisioni e correzioni a quelli che parevano essere i dogmi assoluti e inevitabili. Cruyff ha probabilmente preso per sé anche parte della luminosità di altri astri che lo accompagnavano, da van Hanegem allo stesso Neeskens passando per Resenbrink, Krol e Rep, ma è anche vero che sul campo ha brillato come nessun altro dei suo pur gloriosi compagni di Nazionale o di club. È fisiologico che finisca così: in futuro si parlerà sempre ben più di Messi rispetto a Xavi e Iniesta. Il motivo? Ricordarsi di chi fa gol – tendenzialmente pesanti e spesso decisivi – è sempre più semplice che non ricordare chi ha fatto l’assist o ha dato il la all’azione. E, sebbene sia riduttivo ricordarlo come un semplice “attaccante”, il buon Johan

Ecco, la cosa strana di Cruyff è che spesso finalizzava azioni che aveva iniziato lui stesso (è troppo facile ma anche inevitabile citare quella che ha portato al primo gol della finale del 1974 – dove ha ironicamente fatto tutto il 14 tranne proprio la rete, firmata dal rigorista Neeskens), aiutato dalla concezione dei reparti fluidi tipica del total voetbal e dalla bravura dei compagni ad aprirgli il campo con dei movimenti senza palla perfettamente sincronici e funzionali. Cervello pensante in campo quasi inscindibilmente connesso al cervello pensante in panchina di Rinus Michels, Cruyff è stato uno dei primi giocatori al mondo – se non il primissimo – non tanto a poter fare quello che voleva in campo ma piuttosto a poter scegliere di volta in volta che ruolo interpretare, azione per azione.

Del resto, il suo cervello era fatto in quel modo lì: le sue connessioni neurali gli consentivano di capire praticamente sempre cosa stava succedendo, cosa stava per succedere e di decidere come poter influire sugli avvenimenti che si dispiegavano sotto il suo naso mentre questi erano in pieno svolgimento. L’abusato stilema che definisce “allenatori in campo” i giocatori con uno spiccato senso tattico e un forte ascendente sui compagni è talmente perfetto per definire il 14 che viene da pensare che sia stato inventato per lui.

C’era il diluvio universale e Cruyff decise di giocare come libero perché il più forte del mondo non può giocare in attacco contro una squadra di seconda divisione nel bel mezzo di una pozzanghera. E si concesse la libertà di riorganizzare la squadra. L’allenatore non si intromise perché sapeva che l’autorità sulla squadra ce l’aveva Johan.
Jorge Valdano

Da tecnico, infatti, Cruyff non ha fatto altro che continuare ciò che aveva iniziato da giocatore, arrivando a terminare di porre le basi del credo calcistico del Barcellona e, anzi, di iniziare l’epoca dei successi internazionali dei blaugrana. A lui, infatti, si deve la creazione del dream team catalano dei primi anni ’90 nonché undici trofei vinti in otto anni, per non parlare della formazione di alcune personalità fondamentali tutt’ora appartenenti al variegato pantheon del Barça (Guardiola su tutti). In Italia si tende spesso a ricordare il Cruyff allenatore come il protagonista del tonfo contro il Milan, in finale di Coppa dei Campioni, nel 1994: proprio quell’episodio ci restituisce però l’integrità assoluta dell’uomo Johan rispetto ai suoi principi, talvolta talmente cieca da risultare potenzialmente suicida.

Personaggio comunque non semplice nonostante una grandezza quasi senza pari, il Cruyff post ritiro è stato un uomo coerente fino in fondo, che ha difeso sempre e comunque le sue idee, così come ha fatto per tutta la carriera sportiva se non addirittura in maniera ancora più estrema, al punto che – prima della finale del 2010 – ha anche affermato di sperare che la Spagna vincesse i Mondiali perché si riconosceva di più nella filosofia di gioco della Roja che non nell’Olanda di van Marwijk. Parallelamente al destino riservato alle sue dichiarazioni pubbliche, che non sono sempre state del tutto comprese o condivise, anzi (è famosa la querelle a distanza con Louis van Gaal), il suo percorso da dirigente tra il 1996 e il 2016 è stato ben più travagliato che non da calciatore o da allenatore, sicché non è più riuscito a ritagliarsi uno spazio davvero stabile nel mondo del calcio negli ultimi vent’anni della sua vita. Forse era troppo ingombrante per fare seriamente il dirigente, forse era troppo importante per chiuderlo dietro a una scrivania, forse era troppo carismatico per tenerlo nella sede di una società, forse era invecchiato anche lui.

Quel che è certo è che ci mancherà terribilmente perché un altro scienziato del Gioco come il 14 è semi irripetibile. Coi suoi pregi e con i suoi inevitabili difetti. Perché in fondo di lui affascinava anche quella vena strafottente, la stessa che gli consentiva di fumare come un turco nonostante corresse parecchio (pur con enorme criterio) in campo, la stessa che lo ha portato a essere l’unico con la maglia della Nazionale diversa e fatta apposta nel ’74, la stessa che gli ha permesso di intimare a Valdano di dargli del lei in quanto Cruyff, la stessa che si nota nelle foto con la moglie durante il fidanzamento e i primi tempi della loro vita a Barcellona o in quelle scattate durante il ritiro dei Mondiali, la stessa delle dichiarazioni piuttosto tronfie che precedettero la finale di Champions del ’94, la stessa di chi è convinto di essere in possesso di alcune verità inconfutabili.

Ciao Profeta, ti sia lieve la terra.

C’è una sola palla in gioco, quindi bisogna averne il possesso.
Johan Cruyff

Giorgio Crico
Giorgio Crico
Laureato in Lettere, classe '88. Suona il basso, ascolta rock, scrive ed è innamorato dei contropiedi fulminanti, di Johan Cruyff, della Verità e dello humour inglese. Milanese DOC, fuma tantissimo.

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