Le Olimpiadi proibite

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Il recente Mondiale di calcio femminile ha messo al centro del dibattito, tra gli appassionati e i semplici curiosi, il problema della qualificazione al torneo olimpico delle nazionali di calcio delle Home Nations. Parlo di chi fa parte del Regno Unito, di luoghi in cui il calcio nacque, venne codificato, per poi spiccare il volo. Culle di un football che piace a tantissimi (anche in Italia), di uno sport che come molti altri vede le quattro nazioni gareggiare ognuna per conto proprio, con strappi davvero rari alla regola.

È più unico che raro il caso, infatti, di “nazionale” del Regno Unito. Almeno è ciò che accade negli sport di squadra, specie quelli più diffusi, fenomeni di massa oltre la Manica: quattro delle Sei Nazioni del rugby sono Home Nations (con la differenza dell’Irlanda Unita), nel calcio la rivalità tra Scozia e Inghilterra è la più antica di tutte, in tante altre discipline la bandiera di San Giorgio mai si unisce con le altre. La Union Flag, insomma, sta fuori dallo sport: prima la vedevi a Wembley alle partite di calcio (e la sventolavano gli inglesi), ora la trovi al limite alle partite interne dei Rangers, portatrice di un messaggio politico ben oltre il dato del campo.

L’eccezione a tutto questo, a ben vedere, vive ogni quattro anni, vive coi cinque cerchi: il CIO riconosce il comitato britannico, che partecipa in blocco unico all’evento multisport più importante del pianeta. E se a livello individuale poco cambia, come sport di squadra la cosa si fa sentire: vero che il tennis corre come Gran Bretagna anche nella Davis, ma che periodicamente si mettano in soffitta Galles, Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord non è cosa da poco.

La cosa, nella maggior parte dei casi, è abbastanza pacifica. Per unire le forze e crescere tutti insieme, può andare ben oltre l’obbligo dell’evento in sé: la nazionale di basket ha continuato, per esempio, a chiamarsi Gran Bretagna, e nessuno ha detto nulla. Facile, direte: la pallacanestro non è sport di casa, coinvolge poca gente, figuriamoci se apre dibattiti. Eppure le aperture ci sono e sono anche storiche, pure nelle discipline storiche di Sua Maestà: l’Inghilterra di cricket comprende anche i gallesi (e gli scozzesi sino al 1992), ogni quattro anni i migliori rugbisti d’oltremanica s’uniscono nei British and Irish Lions. Che sono qualcosa di diverso, sì, ma rendono l’idea: andare oltre le rivalità per uno scopo maggiore (l’onore della maglia di una selezione antichissima), e in febbraio via di nuovo tutti a giocarsi il Sei Nazioni.

Insomma basket, cricket, rugby. Per non parlare degli altri sport olimpici, ormai abituati. Tutto questo discorso, a più di un anno dai giochi di Rio, perché è recente la notizia che le inglesi, sorprendentemente terza forza all’ultima Coppa del Mondo, in Brasile non ci andranno (si sapeva che sarebbe andata così, ma è diverso davanti al fatto compiuto). Rinunceranno al sogno della loro vita – dopo la selezione “obbligata” di Londra 2012, chiusa ai quarti di finale – a causa del mancato accordo delle Home Nations. Rinunceranno ai 40, 50 e 60 mila spettatori che solo Mondiali e Olimpiadi, ora come ora, riservano al calcio delle donne: le varie federazioni non hanno voluto osare, temendo la cancellazione delle singole identità e delle nazionali.

Perché poi, a ben vedere, le ragazze di Mark Sampson ci rimettono di riflesso: il vero problema sono le nazionali maschili, quelle che scaldano i cuori della massa, che alimentano rivalità, che spaccano l’opinione pubblica. Specie dopo l’esito del referendum scozzese, c’era paura che un eventuale medaglia olimpica della Gran Bretagna unita rilanciasse l’idea su larga scala, nelle altre competizioni internazionali. Un timore, agli occhi di scrive, esagerato, che butta via il bambino con l’acqua sporca: certo pensare a un’Inghilterra più Bale e altri giocatori rappresentativi affascina non poco, ma i colori delle nazionali storiche non moriranno mai, certo non a causa di un torneo giocato dagli Under 23. Una “nazionale” unita, magari guidata da un grande “unificatore” come Alex Ferguson, sarebbe come i Lions di rugby: una selezione nella quale giocare sia un’onore, l’obiettivo di una carriera. E se proprio non ci si vuole partecipare, pazienza: spazio a chi s’è qualificato, nel caso delle donne a una Gran Bretagna composta da sole inglesi.

Per tutto questo le F.A. che hanno detto di no alla possibilità che le ragazze, sole o accompagnate, vadano a Rio un po’ dovranno sentirsi in colpa: egoiste per vecchi timori, devastanti per l’intero movimento. Che già i problemi li ha di suo, figurarsi quando ci si mettono decisioni così: insieme alle varie anomalie olimpiche (le sudamericane nel maschile avranno sempre “fuori quota” migliori di noi, che nell’anno olimpico giochiamo l’Europeo), il problema Gran Bretagna prima o poi andrà affrontato. Speriamo alla svelta, prima di tarpare le ali e spezzare il sogno a un’altra generazione di calciatori e calciatrici.

Matteo Portoghese
Matteo Portoghese
Sardo classe 1987, ama il rugby, il calcio e i supplementari punto a punto. Già redattore di Isolabasket.it e della rivista cagliaritana Vulcano, si è laureato in Lettere con una tesi su Woody Allen.

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