L’anno che verrà: il mondiale dei mondiali (di rugby)

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Se lo spot pubblicizzava Brasile 2014 come il mondiale dei mondiali, Inghilterra 2015 non sarà da meno. Parliamo di rugby e l’anno che verrà propone, in autunno, la massima competizione per nazionali. Una vera e propria perla nel calendario, la data cerchiata di rosso nella tabella di marcia di giocatori, allenatori, addetti ai lavori e semplici tifosi.

Logisticamente un passo avanti, per noi europei, rispetto al 2011. Allora la truppa si trasferì in Nuova Zelanda, terra suggestiva che vive di rugby un giorno sì e l’altro pure, ma scomoda per fusi orari, partite trasmesse in mattinata (ora italiana), distanza. Stavolta si va lì dove gli sport moderni sono nati, nel luogo della loro codificazione e della prima diffusione: la Gran Bretagna (Inghilterra e Galles), sino alla finale di Twickenham.

Nel tempio della Rugby Football Union, dove l’Italia non ha mai vinto e dove il pubblico fa un po’ paura. Chissà se la gente, in un eventuale Inghilterra-Nuova Zelanda, risponderà nuovamente alla Haka, e se i bianchi si riprenderanno quello scetto iridato che manca dal 2003.

Proprio l’anno dopo il ritiro di Jonny Wilkinson – eroe di quelle settimane in cui anche i campi di calcio cantavano Swing Low, Sweet Chariot – gli inglesi affronteranno la sfida mondiale, tra le mura amiche. Ma non è neanche sicuro il passaggio del turno, perché il sorteggio li ha messi insieme a Galles e Australia: una big salterà subito, resta da vedere quale.

Delle tre, non ce ne è una che stia serena: i gallesi, come tipico, sorridono nel Sei Nazioni ma balbettano contro le “big three”, mentre gli australiani vivono una crisi tecnica spaventosa e sono usciti con le ossa rotte dai Test match novembrini. La stessa Red Rose è in ritardo coi preparativi, non si fida più dell’apertura designata tre anni e mezzo fa (Owen Farrell), manca di qualità da titolo in certe posizioni chiave. Se il passaggio di Sam Burgess al rugby union è studiato per il bene di questa nazionale, l’ex stella di South Sydney è chiamato a una transizione rapida e difficile, che non aiuta e non rende ottimista una squadra che ha smarrito sé stessa, non vince un Sei Nazioni da 4 anni e a novembre ha ceduto sia agli All Blacks che agli Springboks, a Londra.

Con Sudafrica e Francia rilassate e inserite in gironi tutto tranne che difficili, l’Irlanda è da tenere d’occhio: i recenti exploit a livello continentale e non autorizzano il sogno di un trionfo in casa del vicino di casa ingombrante, lì dove sarebbe il colpaccio. Naturalmente, la Nuova Zelanda resta la favorita, perché stravince quando gioca bene, vince quando gioca male, perde quando (e se) gioca malissimo, ma resta la sensazione che la cara vecchia Europa ce la possa fare e che il verde sia il colore giusto.

E noi? Noi viaggiamo non solo a fari spenti, ma col motore quasi in panne. Non siamo andati bene, non stiamo andando bene: incespichiamo, cadiamo, precipitiamo nel ranking. Non abbiamo risolto il mistero dell’apertura, e la crescita internazionale del rugby argentino nello sport professionistico ci priverà dei prossimi oriundi. Avremmo dovuto studiare, prepararci e programmare, eppure abbiamo scelto un n. 10 equiparato, neozelandese trapiantato in Italia.

Non c’è da essere sciovinisti ma pratici, eppure è poco per passare il turno. Poco per stupire e sorprendere, poco per superare le Colonne d’Ercole ed entrare tra le prime otto nel mondo.

E allora è qui che il 2015 è chiamato a stupirci. Perché gli azzurri facciano meglio dell’Italia più famosa eppure in crisi più di tutte, dopo i fasti del passato: buon anno, buona Champions Cup, buon Pro 12 e buon mondiale dei mondiali. Ci sarà da divertirsi.

Matteo Portoghese
Matteo Portoghese
Sardo classe 1987, ama il rugby, il calcio e i supplementari punto a punto. Già redattore di Isolabasket.it e della rivista cagliaritana Vulcano, si è laureato in Lettere con una tesi su Woody Allen.

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