Scandalo arbitri | Eriksson accusa: “Collina ci scansionava quasi nudi”, pesi e grasso letti ad alta voce: mi sentivo umiliato; il racconto che fa tremare l’UEFA
Pierluigi Collina (Wikipedia) - Mondosportivo
L’ex arbitro internazionale Jonas Eriksson, nel suo libro “House of Cards”, racconta di controlli fisici umilianti durante i raduni UEFA sotto la guida di Pierluigi Collina: file in biancheria, bilancia davanti a tutti, percentuale di grasso annunciata ad alta voce e quello sguardo “gelido” addosso.
L’immagine che Eriksson descrive è potente e disturbante. Gli arbitri europei, considerati modelli di integrità e professionalità, messi in fila quasi nudi per salire sulla bilancia uno alla volta. Il peso veniva comunicato pubblicamente, senza filtri, e subito dopo iniziava la misurazione delle pliche per calcolare la percentuale di massa grassa. Tutto avveniva in silenzio, con Collina che — secondo il racconto — osservava “dall’alto in basso” con uno sguardo freddo. In quel rituale l’ex fischietto svedese dice di essersi sentito umiliato, come un adulto costretto a esporsi oltre il necessario.
Eriksson precisa che la prima volta in cui visse questa scena fu nell’autunno 2010. Ricorda il suo peso letto ad alta voce, ricorda il 18,7% di grasso corporeo reso pubblico davanti ai colleghi, ricorda soprattutto la pressione psicologica di un ambiente in cui “nessuno osava dire una parola”. La spiegazione è semplice e dura: criticare chi comandava, cioè Collina — allora a capo della Commissione Arbitrale UEFA e poi responsabile FIFA — poteva significare, a suo dire, la fine della carriera internazionale.
La linea del racconto: disciplina estrema, controllo totale, silenzio
Il quadro che esce dalle pagine è quello di una disciplina fisica severa, portata all’estremo in nome dell’eccellenza. Eriksson non mette in discussione l’importanza della forma atletica per gli arbitri, ma il modo in cui quei controlli venivano effettuati. Sottolinea che la pubblica lettura di peso e grasso, associata allo sguardo fisso del capo, trasformava un normale test in un momento di esposizione che intaccava la dignità. È la differenza tra valutare performance e mettere a nudo le persone, tra standard professionali e umiliazione.
Nel suo racconto il clima è quello di un potere verticale e poco contestabile. Un’autorità tecnicamente indiscutibile, capace di alzare l’asticella della preparazione, ma anche di generare un timore diffuso. Eriksson lo dice senza giri di parole: “Sapevamo che parlare significava rischiare tutto”. Per questo, spiega, anche chi faticava ad accettare quel metodo preferiva abbassare lo sguardo, eseguire, tornare in camera con la promessa di dimagrire qualche etto prima del prossimo raduno.

Il peso delle parole: un libro, un estratto e una carriera da 142 gare internazionali
Le accuse non arrivano da un perfetto sconosciuto. Eriksson è stato un arbitro di livello, con 142 partite internazionali dirette tra Champions League, Europei e Mondiali. La sua voce, quindi, ha un peso specifico nel dibattito su come vada gestita la selezione del gruppo élite. Nel libro “House of Cards”, di cui è stato pubblicato un estratto, l’ex fischietto intreccia ricordi personali e scene di spogliatoio per spiegare perché certi metodi di controllo abbiano lasciato un segno profondo. La sostanza non è discutere la necessità dei test, ma chiedersi se il fine giustifichi procedure che, raccontate così, sconfinano nell’umiliazione pubblica.
C’è anche un elemento emotivo che emerge con forza. Eriksson parla di “sguardo glaciale”, di una scansione del corpo “quasi nudo”, di un imbarazzo che non è solo personale ma collettivo. Dice che in quella stanza non si respirava solo l’odore del disinfettante, ma anche quello della paura di sbagliare, di essere giudicati deboli, di finire nel mirino. In contesti ad altissima pressione, ogni dettaglio pesa: una cifra detta a voce alta può diventare un’etichetta, un numero in grado di accompagnarti in campo e condizionare le scelte tecniche successive.
Nel racconto c’è spazio anche per la consapevolezza che quei criteri abbiano contribuito a creare arbitri più atletici e pronti. Ma l’autore si chiede il prezzo pagato in termini di rispetto e benessere psicologico. È qui che sta la frattura: servono standard chiari e misurabili, ma servono anche limiti che proteggano la persona. Un conto è pretendere il massimo, un altro è farlo in modo da esporre pubblicamente corpi e numeri che, fuori da un contesto sanitario, dovrebbero restare riservati.
Il passaggio finale che colpisce è la confessione della propria impotenza in quel momento. Eriksson ammette di non aver avuto il coraggio di opporsi, di aver ingoiato il rospo per non compromettere anni di lavoro. Una resa che oggi si trasforma in testimonianza, con la speranza — si intuisce — che la condivisione di quelle scene apra una riflessione più matura su metodi, tutele e confini del potere nei gruppi arbitrali d’élite.
Il libro, insomma, accende un faro su una zona spesso poco raccontata: l’interno dei raduni, il linguaggio dei gesti, le regole non scritte che plasmano la carriera di chi deve prendere decisioni in pochi secondi davanti al mondo. Che si condividano o meno le sue parole, il racconto di Jonas Eriksson costringe a guardare dietro il sipario, dove si formano la sicurezza e i dubbi di chi fischia. E pone una domanda che resta sospesa sopra ogni organizzazione d’élite: come si misura davvero l’eccellenza, e fino a che punto si può spingere il controllo senza perdere di vista la dignità delle persone?
