In Iraq si sta giocando una storica Gulf Cup, in un intreccio tra calcio e politica

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Sono passati esattamente 44 anni tra le uniche due edizioni (su venticinque) della Arabian Gulf Cup organizzate in Iraq. Nell’ultimo decennio, ci si era provato ben due volte ma, come spesso accade quando si tratta di organizzare questa competizione, le ragioni politiche e di sicurezza avevano costretto a rivedere i piani: sia per l’edizione del 2013 che per quella del 2014, la città irachena di Basra si era vista sottrarre davanti agli occhi l’autorizzazione a ospitare il torneo per i dubbi degli organizzatori sulla preparazione e la sicurezza del Paese, preferendo spostare la competizione in Bahrein e Arabia Saudita.

Perplessità legittime, se consideriamo quanto sia stata complessa la quasi totalità degli anni ’10 del 2000 per l’Iraq: prima il ritiro delle truppe americane nel 2011 in una situazione di conflitto ancora aperta, poi le conseguenze delle Primavere Arabe (anche se con un impatto minore rispetto ad altri Paesi coinvolti) e soprattutto della Guerra Civile Siriana, con il seguente dramma della guerra allo Stato Islamico nella parte settentrionale del Paese. Sembrano ricordi di un’epoca lontana, ma per l’Iraq gli effetti sulla propria stabilità interna e sociale sono stati sconvolgenti e ancora non del tutto superati: l’occupazione di una consistente parte nel Nord del Paese con la città di Mosul, lo sterminio delle popolazioni locali (in particolare, il vero e proprio genocidio della minoranza degli Yazidi), la seguente risposta militare da parte del mondo occidentale.

La fine del lungo periodo di lotta all’ISIS non è nemmeno tracciabile con una linea retta, come se si trattasse della conclusione di un conflitto come siamo stati abituati a pensarlo per secoli. Le organizzazioni terroristiche hanno continuato a portare instabilità in Iraq (anche quelle provenienti dal vicino Iran), a cui si è aggiunta una maggiore stanchezza della popolazione di fronte a problemi radicati nel Paese: corruzione, disoccupazione, servizi pubblici di scarso livello o inesistenti. Sono cominciati anni di grandi proteste, spesso soffocate nel sangue, almeno fino allo scorso ottobre, quando il Paese ha assistito all’elezione di un nuovo Presidente (Abdul Latif Rashid) e un nuovo Primo Ministro (Mohammed Shia al-Sudani).

Parlare di normalità resta difficile, con diverse perplessità rimaste sulla sicurezza interna del Paese, ma stavolta Basra ha potuto finalmente ospitare la Gulf Cup, inaugurata ufficialmente venerdì notte. Si è assistito a una cerimonia ricca di effetti speciali e momenti di grande spettacolo, anche perché questa competizione resta sempre un’ottima occasione per provare a mostrare (l’almeno apparente) forza del Paese ospitante, della sua cultura e ospitalità. Il presidente della FIFA Infantino ha definito “un onore poter essere per la prima volta a Basra, è un giorno importante, simbolico per l’Iraq”.

Per gli iracheni, resta anche soltanto simbolicamente un evento che chiude una lunghissima fase di isolamento regionale, di invasioni territoriali, guerre civili, dittature: in mezzo alle due edizioni della Gulf Cup giocate in Iraq ci sono stati decenni complessi che hanno segnato tutta la storia recente del Paese, rimasto isolato dopo l’invasione del Kuwait sia sul piano diplomatico, ma anche sportivo, visto che la Nazionale irachena è stata esclusa dalla competizione tra il 1990 e il 2004, anno della caduta del regime di Saddam Hussein. Ospitare a casa propria le Nazionali di tutta la regione del Golfo significa anche sancire un riavvicinamento con tutti quei vicini un tempo distanti, se non addirittura ostili. La popolazione irachena ha subito riconosciuto l’evento come un momento di svolta e di apertura con pochi precedenti: sui social sono diventati virali hashtag come #OurGulfIsOne o #BasraIsYourHome, nei bar e nei locali si sentono le tante canzoni promozionali dell’evento, tanti volontari hanno contribuito alla realizzazione di murales colorati in varie parti della città di Basra e numerosi sono i progetti lanciati per mostrare l’ospitalità e la generosità del Paese.

Il giornalista yemenita, ma residente in Kuwait, Abd Al-Razzaq Al-Azazi vede questo evento come “un messaggio politico che l’Iraq si è ripreso dalle sue crisi. E’ anche il primo passo in vista di una maggiore apertura a ospitare in futuro altri eventi sportivi. Spero che i fratelli arabi investiranno in questa opportunità di superare le reminiscenze del passato e andare oltre i precedenti conflitti e tensioni che hanno segnato le relazioni dell’Iraq verso i propri vicini arabi”.

Un riavvicinamento risultato evidente, per esempio, con il Qatar, fresco organizzatore dei Mondiali 2022: come spiegato dall’ambasciatore qatariota in Iraq Khalid bin Hamad Al Sulaiti, il Qatar “ha supportato l’organizzazione dell’evento sin dall’assegnazione a Basra in vari campi, compreso quello sportivo” e che il torneo “testimonia un’atmosfera positiva e organizzazione a tutti i livelli, a partire dal ricevimento delle delegazioni partecipanti e preparando tutti gli aspetti logistici e gli stadi”.

Fa ancora più effetto pensare a un Iraq che possa permettersi uno spettacolo di tale portata e il disastro che sta avvenendo nell’Iran confinante, dove gli stadi sono a porte chiuse dallo scorso primo ottobre a causa delle manifestazioni interne e la durissima repressione del Governo. Anche con eventi di questo tipo, possono passare segnali evidenti di soft power tra Paesi vicini: l’Iraq ha colto l’occasione anche per rinnovare i due stadi che ospiteranno le partite di questi giorni, due veri e propri monumenti moderni, imponenti e scenografici come il Basra International Stadium, da 65mila posti, e l’Al Minaa Olympic Stadium, da 30mila posti.

La stessa scelta di Basra come città ospitante è carica di significato: uno dei più importanti porti della regione del Golfo, capitale economica dell’Iraq, ma anche luogo da dove sono passate guerre e invasioni, con il culmine raggiunto con la battaglia di Basra nel 2003, quando la città divenne il primo centro importante occupato dalla coalizione di Stati Uniti e Regno Unito nel corso della guerra al regime di Saddam Hussein.

Durante la cerimonia non sono mancati momenti simbolicamente forti, a ricordare anche la storia recente dell’Iraq, a maggior ragione nella Giornata dedicata all’Esercito Iracheno: il più significativo è arrivato al momento della comparsa, con in mano la bandiera irachena e l’asta che parte dal petto, in corrispondenza con il cuore, del Colonnello Alaa Al-Aydani, diventato cieco nella battaglia per la liberazione di Mosul dai combattenti dello Stato Islamico. Un momento di svolta per la storia recente dell’Iraq, che una competizione di questa importanza non poteva dimenticare.

Non sono mancati, però, anche situazioni di inaspettata tensione, con tratti anche politici, in tribuna al Basra International Stadium quando, all’arrivo dei capi delegazione del Kuwait, è scoppiata una piccola rissa, con le forze dell’ordine chiamati a separare diversi uomini andati in escandescenza. Una situazione che avrebbe impedito l’accesso allo stadio allo sceicco Fahad Al-Naser, rappresentante dell’emirato del Paese e presidente del Comitato Olimpico nazionale, e la conseguente decisione della delegazione di lasciare lo stadio in sua solidarietà. Abdulaziz al-Samhan, uno dei rappresentanti della Federcalcio del Kuwait, ha raccontato di aver subito anche il furto del suo portafoglio fuori dallo stadio, salvo accorgersene solo una volta arrivato in tribuna.

Da qui, l’annuncio della Federcalcio kuwaitiana del rientro immediato della delegazione in patria in segno di protesta per la “disorganizzazione mostrata”, salvo però sottolineare la permanenza della squadra al torneo. Immediate le scuse della Federcalcio irachena, che ha sottolineato la “profonda relazione tra i due Paesi” e l’importante supporto ricevuto anche dal Kuwait per permettere l’organizzazione della competizione. Un episodio che ha riaperto temporaneamente una ferita profonda per l’intera regione, risalente agli anni dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e la seguente Guerra del Golfo che vide opporre gli iracheni (e il caso eccezionale dello Yemen) alla coalizione guidata dagli Stati Uniti, comprensiva anche di Paesi vicini come l’Arabia Saudita.

Incomprensioni diplomatiche a parte, l’impressione generale è che per l’Iraq la Gulf Cup possa diventare la grande occasione per aprirsi al resto del mondo arabo. Dopo anni di ispezioni della FIFA per verificare l’esistenza di condizioni adeguate a ospitare un torneo e il graduale ritorno del calcio giocato nel Paese (la Nazionale è tornata a giocare a Baghdad solo negli ultimi anni dopo aver giocato principalmente ad Amman, Abu Dhabi e Teheran), ospitare questo torneo significa acquisire prestigio ed entrare nel gioco di una competizione “sana” con i propri vicini per mostrare le qualità di un Paese intero.

Non senza far emergere, però, ancora una volta i paradossi che si vivono con questi eventi, caratterizzati da investimenti di peso per “abbellire” la propria immagine al mondo, ma con una situazione interna che resta difficile: i diritti delle donne restano lontani dall’essere ancora totalmente riconosciuti, non tutti i cittadini hanno diritto di accesso alle stesse opportunità, la corruzione resta un problema reale all’interno delle istituzioni, un quarto della popolazione è al di sotto della soglia di povertà. Insomma, proprio come in Qatar, dietro alle scene illuminate degli stadi, si nasconde la realtà di un Iraq ben lontano, in diversi ambiti, dall’essere in condizioni accettabili.

Tornando al piano sportivo, per la stessa Nazionale irachena, il torneo giocato in casa viene considerato parte di un processo di ricostruzione della stessa squadra. Dalla vittoria della Coppa d’Asia nel 2007, la squadra ha vissuto anni di alti e bassi, con il passaggio anche di allenatori stranieri come il più celebre Dick Advocaat (durato appena 6 partite, con 4 pareggi e 2 sconfitte) e lo sloveno Srecko Katanec, fino all’attuale ct, lo spagnolo Jesus Casas, ex match analyst di Eibar e Barcelona, ma anche membro degli staff di Javi Gracia al Watford e della Nazionale spagnola arrivato a Baghdad proprio in questi mesi. L’avventura dello spagnolo sarebbe dovuta cominciare alla fine di novembre con le amichevoli contro Costa Rica e Venezuela, entrambe rimandate rispettivamente per problemi di timbri sui passaporti al confine e per ragioni sconosciute. Risultato, Casas ha guidato per la prima volta l’Iraq soltanto il 30 dicembre contro il Kuwait: anche per questo, la Gulf Cup è diventata un’occasione per sperimentare e mettere alla prova la squadra con un test importante in vista dei futuri impegni.

Le sorprese per questa competizione restano comunque dietro l’angolo. Il Qatar, reduce dalla disastrosa esperienza dei Mondiali, si presenta con una squadra di riserve e con un nuovo ct, Bruno Pinheiro, dopo le dimissioni di Felix Sanchez. L’Arabia Saudita si affiderà a una squadra formata per lo più da U23, reduci dalla prima storica vittoria della Coppa d’Asia di categoria e ora pronti per affrontare un nuovo step per preparare una generazione di livello superiore. Senza dimenticare possibili ribaltoni da parte di Oman, il Bahrain campione in carica e Kuwait, massimo detentore della competizione con 10 vittorie, o la più drammatica storia dello Yemen, che da anni sta vivendo una delle più sanguinose e drammatiche guerre civili della storia. E anche per la Nazionale yemenita ci sono immagini che parlano da sole: durante la sfida contro l’Arabia Saudita, i calciatori sostituiti hanno dovuto passare i propri parastinchi ai compagni subentrati, a testimoniare la difficoltà della squadra anche soltanto ad avere materiale sportivo per presentarsi.

Storie che si incontreranno per circa una settimana in una competizione in cui sport e politica sono da sempre intrecciati.

Francesco Moria
Francesco Moria
Nato a Monza nel '95, ha tre grandi passioni: Mark Knopfler, la letteratura e il calcio inglese. Sogna di diventare giornalista d'inchiesta, andando a studiare il complesso rapporto tra calcio e politica.

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