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Gianluca Vialli e quella discussione in diretta con Mihajlovic. Per Gianni Brera era “StradiVialli”

Il celebre monologo di Ivan Benassi, interpretato da Stefano Accorsi nel film “Radiofreccia” recita al suo culmine una liturgia che comincia così: “Credo nelle rovesciate di Bonimba e nei reef di Keith Richards…”. Il suo intervento poi prosegue, uno sfogo che è anche fotografia di un momento storico in cui proliferavano sì le radio libere, ma nell’aria si respirava anche tanta instabilità. Io, che negli anni settanta ancora non c’ero e negli ottanta ero un bambino, ho creduto invece nelle rovesciate di Gianluca Vialli e negli acuti di Freddie Mercury. E nel momento in cui l’ex riccioluto enfant prodige di Cremona ha lasciato questa Terra, presto, troppo presto, a soli 58 anni, ho capito che è stato parte della mia infanzia. La rovesciata, gesto tecnico per eccellenza stampato sulle figurine Panini con la figura sinuosa di Carlo Parola. Per me significava Vialli con la maglia grigiorossa della sua Cremonese e sempre Vialli con la maglia bianconera della Juventus, a scaraventare in porta il pallone proprio contro la sua ex-squadra. Era la stagione di grazia 1994-95.

Nel gioco delle coppie del calcio, lui e Roberto Mancini hanno rappresentato ciò che Albano e Romina erano in quel momento per i rotocalchi rosa: l’amore con la A maiuscola. Solo che, nel loro caso, a godere di quell’intesa non c’erano solo i due amanti, ma soprattutto i tifosi della Sampdoria e quelli del calcio in generale. Una scorpacciata di baci sottoforma di gol, abbracci avvolti in giocate leggendarie. E sorrisi sottoforma di scherzi e goliardate, nello spogliatoio e davanti a una telecamera. Erano gli anni di Mai Dire Gol, quelli dove i calciatori sapevano prendersi in giro e Vialli era uno di questi, sempre pronto a gag e sceneggiate che potessero alleggerire la serietà di un risultato sportivo. Gianluca, del resto, se n’è andato nel giorno del compleanno di Attilio Lombardo, uno che si faceva suonare la testa come un bongo da Gullit in una delle celebri sigle della trasmissione della Gialappa’s, ballava durante un’intervista con un giornalista inglese e che si faceva chiamare “Popeye” dai tifosi blucerchiati. Lombardo che, in un arco temporale leggermente spostato in avanti di qualche anno, ha ripercorso quasi le stesse tappe di carriera di Vialli: Cremonese, poi Sampdoria, quindi Juventus. Strani casi di un destino che li ha voluti a braccetto nella vita e ormai legati per sempre nel giorno della morte di uno dei due.

La vita di Gianluca Vialli, benché breve, è stata “vissuta”. Piena di gioie, di dolori, di legami e di contrasti che, a volte, hanno reso proprio quei legami più forti. Perché avvenuti nel rispetto reciproco dell’altro. Negli annali, infatti, resterà anche una famosa discussione “televisiva” tra lui e Sinisa Mihajlović, uniti in un tragico destino a 21 giorni appena di distanza. Era il 2017, di lì a poco Vialli avrebbe scoperto il suo “ospite indesiderato” e, dopo un acceso derby tra Juventus e Torino finito 1-1 con gol in extremis di Higuaín, lui e Mihajlović (all’epoca allenatore del Toro) battibeccarono in diretta sull’espulsione di Acquah che aveva lasciato i granata in dieci nel finale di gara. Questo, più di altri episodi densi di melensa retorica, spiega bene chi erano quei due: uomini di sport, con vedute differenti, che potevano bisticciare, ma che restavano nei limiti della discussione calcistica, anche se uno perdeva leggermente l’aplomb per la tensione post-gara. Perché la vita, come ci ha ricordato Vialli stesso in tante inerviste, è fatta al 20% di ciò che ci accade e dall’80% di come reagiamo a ciò che ci accade. Il che comprende anche contrasti e discussioni con amici e colleghi di una vita.

Gianni Brera lo chiamava “StradiVialli” per richiamare le sue origini cremonesi, terra di violini, e per celebrare anche le melodie che era in grado di suonare in campo. Vialli si è fatto apprezzare non solo per le sue doti di centravanti moderno, numero 9 capace di accarezzare il pallone e non solo schiaffeggiarlo dentro la porta. Appesi gli scarpini al chiodo, è stato un eccellente opinionista televisivo, sempre garbato e deciso nelle sue idee. Capacità già messa in mostra durante la sua carriera, quando si cimentò come conduttore della trasmissione di Italia 1 “Settimana Gol”. Subito a suo agio con la telecamera, dominata come certe partite di coppa della Samp, seppe destreggiarsi in interviste tutt’altro che banali al suo allenatore Vujadin Boskov e all’avversario per eccellenza dell’epoca, Diego Armando Maradona. Cui chiese, gentilmente, di non strafare nello scontro diretto con i blucerchiati che si sarebbe disputato di lì a poco. Diego, altrettanto gentilmente, si limitò a segnare soltanto un gol nell’1-1 finale firmato anche da Dossena. Il fantasista più rotondo di tutti e il centravanti più rotondo dei centravanti. Oro colato per chi era davanti al televisore.

È nella malattia, però, che Gianluca Vialli ha lasciato gli insegnamenti più forti. Alle sue figlie e alle generazioni che verranno. Non si parla di sofferenza, né di battaglie, non di vittorie né di sconfitte. C’è un compagno di viaggio, sgradito, che ti costringe a fare i conti con te stesso, che ti fa reagire alla vita in modo diverso, che ti fa apprezzare di più ciò che non è tangibile. E che regala poco tempo alle sciocchezze. Lottare vuol dire solo affermare la vita con gioia, non mettersi a muso duro contro un avversario che è troppo più forte di te. Morire non significa arrendersi, ma attraversare una porta verso l’inconoscibile, con la consapevolezza di aver lasciato del buono nel mondo che ormai non ci appartiene più. E ho capito ora perché l’Italia ha vinto Euro 2020. Perché era scritto nel destino che dovesse esserci un ultimo regalo per un uomo pieno di dignità, lì sul prato di Wembley dove lui e il fratello Mancini si sono stretti in un lungo abbraccio, carico di pathos e commozione, dopo che ci avevano lasciato una Coppa dei Campioni, lì con addosso un azzurro che da giocatori aveva regalato ad entrambi ben poche gioie. A Messico ’86 c’era solo Vialli, a Italia ’90 il Mancio non giocò mai, Luca tradì le attese di bomber e scappava dal ritiro di Marino per andare tra le braccia di Alba Parietti. A USA ’94 il 9 litigò con Sacchi e venne escluso, il 10 si rifiutò addirittura di partire. Caratteri fumantini entrambi. Solo ad Euro ’88 in Germania seppero cucirsi un ruolo da protagonisti. Vialli con la doppietta in fase di qualificazione alla Svezia a Napoli e con il gol alla Spagna nei gironi, Mancini con l’acuto in rete contro i padroni di casa teutonici e successiva esultanza polemica nei confronti dei suoi dirigenti, il che non ne fece mai un ospite troppo gradito a Coverciano.

Mi accorgo ora che parlare di Vialli significa scivolare automaticamente a parlare anche di Mancini. E parlare di Mancini riporta inevitabilmente a Vialli. Un binomio anche nel giorno più tragico, dove a rimbombare è silenzio assordante di entrambi. Vialli non potrà parlare mai più, Mancini è chiuso nel suo dolore per aver perso due fratelli, Luca e Sinisa, in così poco tempo. Penserà a lui, al presidente Mantovani, a Vujadin Boskov e a Miha, simboli volati via di una Sampdoria leggendaria. C’è da attendersi un omaggio da brividi domenica pomeriggio al Ferraris. Si affrontano Sampdoria e Napoli, ancora una volta. E quando l’arbitro darà il fischio d’inizio lassù, su una nuvola, Vialli e Maradona stapperanno una birra e si godranno lo spettacolo. Quello spettacolo che è stata la Serie A negli anni ’80 anche e soprattutto grazie a loro.

Ciao Gianluca,
un tuo ammiratore.

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