Quella volta che il San Paolo vide Pelé, prima del “suo” Maradona

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Thomas Edison inventò nel 1879 la lampadina e diede, così, la luce al mondo. Illuminò anche il piccolo villaggio di Três Corações, nello stato di Minas Gerais in Brasile. Poche case (all’epoca, oggi conta circa 70mila abitanti) e tanta povertà. In un posto così, una strada illuminata equivale ad un prodigio della tecnologia. Per omaggiare tanta grazia, il calciatore João Ramos do Nascimento, detto “Dondinho” (discreto attaccante), insieme alla moglie Maria Celeste Arantes, decise di chiamare suo figlio Edison, nato il 23 Ottobre 1940. Purtroppo, però, l’impiegato dell’ufficio anagrafe dimenticò di scrivere una “i” ed Edison diventò così Edson. Edson-Arantes-do Nascimento. E se il papà realizzò 5 gol di testa in una sola partita, record imbattuto ancora oggi, il figlio sarà destinato, forse proprio perché marchiato da quel nome rivoluzionario, a illuminare la storia del calcio.

L’Edson bambino aiutava il papà, infortunatosi al ginocchio, nel suo nuovo lavoro, ben poco gratificante: la pulizia dei bagni. Non solo, il piccolo “Dico”, questo il primo soprannome della sua vita usato dai suoi familiari, si destreggiava bene anche come lustrascarpe. A 17 anni era chiamato Gasolina in onore di un cantante brasiliano. Nomignolo, questo, che non prevalse, perché all’epoca veniva già chiamato anche Pelé dai suoi amici. Lo stesso asso brasiliano racconta che un giorno, durante una partitella, “peleó” una palla, cioè la lisció completamente. E venne preso in giro al grido di “Pelé, Pelé”, cosa che lo fece imbufalire. Ma c’è anche chi ha gravitato intorno a lui nella sua infanzia, tra amici e conoscenti, che riporta la storia in modo diverso. E riferisce che Edson, in realtà, storpiava il nome di uno dei suoi idoli calcistici infantili: il portiere Bilé. Quella B proprio non gli entrava in testa e ne usciva così un “Pilé” che faceva sorridere. Tutti meno Edson, che non gradiva quella presa in giro, quel nomignolo da bambino stupido, proprio lui che portava invece il nome di uno degli esseri umani più intelligenti della storia. Quel Pilé, che poi divenne Pelé, quale che sia la vera origine della sua coniazione, diventerà icona, brand, marchio e simbolo del suo successo.

Quella lampadina adesso s’è fulminata. Spenta per sempre dopo 82 anni di vita nel senso più completo della sua parola.

Una carriera consumata interamente nelle Americhe, tra Brasile e Stati Uniti, ma costellata di tante tappe intermedie in giro per il mondo, quindi anche in Europa, nel corso delle infinite tournée del suo Santos, vere fonti di reddito a quei tempi per le squadre di calcio.

Nel 1958 il presidente Angelo Moratti, stregato dal primo mondiale da protagonista del giovane Edson, riuscì a strappargli la firma su un contratto che lo avrebbe vestito di nerazzurro. All’uscita della notizia, non ci fu una rivolta popolare dei tifosi del Santos, no… ci fu un’insurrezione nazionale di tutto il Brasile, che di perdere la sua stella non ne aveva la minima intenzione! Il presidente del Santos temeva per la sua incolumità e Moratti, a malincuore, stracciò quel contratto, rinunciando al miglior affare della storia del calcio. Pelé, però, ebbe modo molte volte di incrociare l’Italia e il calcio italiano. Non solo sui grandi palcoscenici come San Siro, Artemio Franchi o San Paolo, bensì anche negli stadi di città più piccole come Alessandria, Lecce, Catanzaro, Mantova. Tutti volevano veder giocare O Rei e in molte di queste occasioni lui ci mise la firma, sottoforma di gol, assist e giocate leggendarie.

Nel 1972 segna una doppietta al San Paolo contro il Napoli di Zoff, Juliano, Montefusco, Improta e dei due italo-brasiliani Sormani e Altafini. Prima di Maradona, 25000 napoletani avevano visto con i propri occhi un’altra divinità. Nello stesso anno, il carneade Alberto Ginulfi, portiere di riserva della Roma, parò addirittura un calcio di rigore a Pelé. Lui, che dal dischetto aveva fallito appena 3 volte in carriera.

Pelé ha giocato in un calcio antico, scevro di tatticismi e contratti pubblicitari. Eppure, è stato il prototipo dell’attaccante moderno, precursore trent’anni prima di uno stile inconfondibile. Rapido di piede e di testa, forte fisicamente, abile in elevazione (dote, quest’ultima, che gli derivava dal padre). Vedeva le giocate prima degli altri. Come in occasione di quel leggendario “drible de vaca” ai danni del portiere uruguagio Mazurkiewicz che lasciò tutti a bocca aperta. Una finta voluta del 10 verdeoro ai mondiali del 1970 che manda completamente al bar l’avversario, ma che purtroppo si conclude con un diagonale che esce fuori di un soffio. Dura realtà del calcio, che non risparmia nemmeno ai più grandi i momenti di insuccesso. Anche se la palla non finì in rete, quel numero è rimasto scolpito nella storia.

Poi, in finale contro l’Italia, quello stacco imperioso di testa che apre le porte alla terza coppa del mondo del suo gigantesco palmarès. Un gesto atletico che abbiamo elogiato, esaltato e analizzato nel minimo dettaglio in un campione moderno come Cristiano Ronaldo, quando ha preso l’ascensore a Genova contro la Sampdoria. C’era chi, 50 anni prima, lo aveva già fatto!

Pelé, Maradona, Cruijff. E Best, Di Stefano, Paolo Rossi, Jasin, Gerd Muller e tanti altri. Le rose degli angeli del football in paradiso sono praticamente fatte. Fischio d’inizio, comincia la partita più bella dell’universo.

Roberto Tortora
Roberto Tortora
Laureato in Scienze della Comunicazione, a Salerno. Master in Giornalismo IULM, a Milano; Giornalista professionista.

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