Inginocchiati o no, gli Azzurri (più che un modello) sono stati specchio dell’Italia attuale

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A poche ore dalla partita contro l’Austria, non siamo ancora in grado di dire con certezza che cosa farà la Nazionale italiana prima del calcio d’inizio. D’altra parte, da giorni regna sovrana la confusione sulla questione dell’inginocchiarsi o meno in nome della lotta al razzismo: prima sembrava essere arrivato un “no” più o meno collettivamente accettato dal gruppo, poi è diventato un “vedremo”, ora si va verso una nuova svolta, attendendo di sapere anche da ciò che farà l’Austria. Insomma, si poteva liquidare la questione già giorni fa, prendendo una decisione chiara e netta, anche sul piano comunicativo, e invece si è preferito portare avanti la vicenda fino all’ultimo, facendo passare quasi in secondo piano la partita in sé. Ha vinto la paura di prendere una posizione precisa, con gli Azzurri che sono diventati specchio di un momento storico in cui si teme quasi di più il massacro sui social che l’espressione libera, ben ponderata e ragionata delle proprie idee.

Le conferenze stampa di Alaba e Bonucci sintetizzano alla perfezione la radice del problema. Da una parte, il capitano dell’Austria, che ha confermato con convinzione la volontà della squadra di inginocchiarsi, offrendo anche una modesta motivazione, evidente frutto di un minimo di riflessione (“ci inginocchieremo, perché è un chiaro messaggio contro il razzismo. Credo che questo gesto abbia attirato l’attenzione di molte persone su questo argomento”). Dall’altra, il nostro vice capitano ha preferito glissare, rimandare ancora, mentre tutti si attendevano un annuncio deciso e finalmente motivato da chi ci doveva mettere la faccia. Si temeva una risposta così, ma forse si è sperato di ricevere qualcosa di più da un giocatore che, alla domanda sui “buu” razzisti a Kean di qualche anno fa, pensò bene di attribuire la colpa tanto ai tifosi quanto al compagno.

In ogni caso, è stato obiettivamente più semplice lasciare la decisione allo scrutinio segreto dello spogliatoio. Ma certo non è la vittoria né della trasparenza né dell’immagine, anche internazionale, di una squadra che già contro il Galles aveva fatto capire di essere divisa sulla questione. Non ce ne vogliano troppo i giocatori che qualche giorno fa hanno deciso di inginocchiarsi e che ripeterebbero il gesto, forse con anche più sicurezza, questa sera. Il ct Mancini ha detto di essere per la libertà e allora diventa quasi un paradosso affidarsi a una decisione collettiva del gruppo che, in un modo o nell’altro, scontenterà una delle due parti.

Potevano essere un modello e, invece, gli Azzurri hanno finito per diventare specchio del nostro Paese. L’Italia che, in altri termini, adora stilare le classifiche su cosa sia più importante e simbolico rispetto ad altro, ovviamente decidendo dalla propria, comoda prospettiva e non di chi è vittima di discriminazioni; che non è mai razzista o omofoba, gli altri lo sono, noi abbiamo tanti amici neri o omosessuali; che ritiene i diritti umani qualcosa di secondario e comunque non così importante, roba da idealisti, perché poi quando vieni a contatto con la realtà allora capisci davvero cos’è importante nella vita; che riporta ovunque le parole, pur sempre legittime, di un Zaha critico verso l’inginocchiarsi, ma si dimentica di riportare quelle favorevoli di RashfordMings; o, ancora, che vorrebbe la politica fuori dallo sport, ignorando quanto in realtà noi siamo immersi quotidianamente in questioni politiche, talvolta persino geopolitiche, quando vediamo una partita di calcio.

Non solo abbiamo ignorato la storia di questo gesto, dimenticandoci della sua reale provenienza, già presente con Martin Luther King e, ovviamente, Kaepernick, ben antecedente al fenomeno del Black Lives Matter; ma lo abbiamo anche svuotato di significato, riducendolo a un gesto automatico, perché “non è servito”, come se tutti i gesti simbolici debbano essere fatti solo se poi ci sono delle conseguenze nel concreto. E, ci tocca rivelarvelo, non è sempre così, o quantomeno non sempre a breve termine, visto che per smuovere le coscienze possono volerci generazioni intere, anni e anni. Figuriamoci se degli sportivi che si inginocchiano potevano cambiare in poco più di un anno un problema così radicato e profondo nella nostra società, espresso dagli stereotipi fino ai gesti di violenza, come il razzismo. Ma, almeno, il gesto ha avuto il merito di farci porre delle domande, riflettere, mostrare ai figli e alle nuove generazioni cosa può significare la lotta alle discriminazioni e quanto potente può essere il messaggio portato dal mondo dello sport.

È questa una ragione sufficiente per rimanere stasera in piedi, a tutela di una non meglio definita lotta alternativa al razzismo? Ci riterremo intellettualmente più onesti se non lo faremo? Lo abbiamo detto in apertura: nessuno sa cosa accadrà davvero. E scopriremo solo sul momento chi sarà “scontentato”, senza però riuscire a capire davvero fino in fondo che cosa ci sia di cui strapparsi le vesti nell’inginocchiarsi per una causa di questa importanza. In ogni caso, ne usciremo con una figura pessima, di una Nazionale (ma anche di un Paese) che non sa prendere decisioni convinte e non si capisce se sia per paura delle reazioni o perché mancano totalmente sensibilità e cultura. Continua a dominare un insopportabile benaltrismo che punta a sminuire, con un atteggiamento chiuso in sé stesso, questa o quella battaglia. La nostra Nazionale poteva essere un modello, un tentativo di superare questo immobilismo. Ha scelto di non scegliere o, peggio ancora se confermato, di far scegliere agli altri. Come se il razzismo, alla fine, non ci importasse davvero come continuiamo a urlare pubblicamente per difendere le nostre colpe.

Francesco Moria
Francesco Moria
Nato a Monza nel '95, ha tre grandi passioni: Mark Knopfler, la letteratura e il calcio inglese. Sogna di diventare giornalista d'inchiesta, andando a studiare il complesso rapporto tra calcio e politica.

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