1992, il Dream Team di Cruijff: da un ammutinamento alla gloria

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Il 1992 per lo sport significa Dream Team di basket alle Olimpiadi di Barcellona. Scottata nel 1988 dalla bruciante sconfitta a Seoul per mano della fortissima Lituania di Kurtinaitis e Sabonis, la squadra statunitense si prende una sonora rivincita conquistando di nuovo la medaglia d’oro, per la terza volta nella propria storia. Il successo va al di là del podio.

Lo spettacolo e il gioco spumeggiante che produce con i suoi ragazzi coach Chuck Daly – ex allenatore dei Detroit Pistons e due volte campione NBA nell’’89 e nel ‘90 – fa capire al mondo non soltanto chi sono i numeri uno, ma che la pallacanestro stessa sta cambiando e i profeti di quel cambiamento sono loro. Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird insieme nello stesso roster. Roba da pazzi! E poi Scottie Pippen, Charles Barkley, David Robinson, Pat Ewing, Karl Malone, John Stockton, Chris Mullin, Christian Laettner e Clyde Drexler. Già in allenamento, in partitella, il livello era supersonico, più che in qualsiasi gara ufficiale. Se la NBA oggi è una macchina da miliardi, molto lo deve a quella impresa.

Prima che MJ e soci incantino il mondo, però, c’è un altro dream team. Riprende gli stessi principi di spettacolo e bellezza e fa capire cosa sarà la Champions League da lì ai prossimi trent’anni. E lo localizziamo sempre in Catalogna, ha la maglia a strisce “blau” e “grana” e gioca al Camp Nou. Il nome della squadra comincia con la B.

Il filo conduttore è lo stesso, il 1988. Se gli USA si erano dovuti leccare le ferite in Corea del Sud, il presidente Núñez a Barcellona aveva dovuto fare i conti con l’ammutinamento di Hesperia: il nome si deve all’albergo nel quale i giocatori convocarono una riunione con il presidente per chiederne il licenziamento! Non era stato tanto il sesto posto in Liga (peggior risultato dal ’42) a inasprire il clima, quanto le grane con il Ministero del Tesoro spagnolo. Soldi, contratti, e cosa sennò? Il fisco pretendeva delle tasse per la mancata scissione negli accordi tra le prestazioni sportive e i diritti d’immagine. La società blaugrana volle allora imporre ai giocatori il pagamento del debito. Da lì, il caos.

La dichiarazione di licenziamento fu firmata da tutta la squadra, ad eccezione di Bernd Schuster, che aveva risolto privatamente la questione con il presidente. Alla fine, quasi tutti avrebbero abbandonato Barcellona, chi prima con rescissione del contratto, chi poi con il mancato rinnovo o con una cessione concordata. Anche l’allenatore, Luìs Aragones, subentrato alla 5a giornata a Terry Venables, fu mandato via. Il punto più basso della storia del Barcellona senza ombra di dubbio. Resterà soltanto uno, fino al 1994, il portiere Andoni Zubizarreta. Il presidente catalano, per continuare a governare il club aveva bisogno di una figura leader stabile nel nuovo spogliatoio. Dal fondo, così, cominciò quella che non fu solo una risalita, ma un vero e proprio decollo nell’empireo del calcio mondiale.

Se il tempismo è tutto in amore e, in generale, nella vita, allora nel calcio capitò a fagiolo quell’anno il divorzio non certo tenero tra Johan Cruijff ed il suo Ajax. Due amanti che si sarebbero sempre amati e odiati con la stessa forza. Nel calcio catalano, però, oltre al tempismo da sempre ha avuto un peso la politica e Núñez, per uscire da quella tempesta e garantirsi un futuro, capiva che l’idolo calcistico olandese era un nome d’appeal giusto per rilanciarsi. Non è che gli importasse molto la sua filosofia di calcio. Cruijff, però, non è mai stato uno stupido, anzi, dopo aver buttato via una fortuna in un improbabile allevamento di maiali dieci anni prima, si era fatto più scaltro e aveva capito tutto. Accettò soltanto con la promessa che il presidente non avrebbe messo becco nello spogliatoio. E, sebbene malvolentieri, Núñez accettò. Così, il 5 maggio 1988 nacque l’era di Johan Cruyff allenatore a Barcellona.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, in quel momento, il Milan degli Invincibili sta rivoluzionando il mondo del calcio, grazie a tre olandesi che sviluppano all’estremo quegli ideali di calcio che sono già di proprietà di Cruijff e che Sacchi interpreta a modo suo. Perché, allora, non fare lo stesso e riprendersi il dovuto premio?

Il primo principio del profeta del gol (così ribattezzato in un docu-film del 1976 di Sandro Ciotti) è semplice: “Gioca con la palla, se vuoi correre senza datti all’atletica”. Oltre alla sua sfrontatezza evidente, abbina il dinamismo tattico di Michels e compiace l’edonismo calcistico naturale del Camp Nou. Ai giocatori massima libertà e responsabilizzazione. Nello spogliatoio entra dopo dieci minuti, perché prima vuole che i suoi giocatori si sfoghino in libertà e, perché no, se c’è da insultare l’allenatore che facciano pure. Non è Manlio Scopigno, ma poco ci manca.

In campo, il gioco viene pensato con i tempi con cui Cruijff stesso illudeva tifosi e avversari: “Molti pensano che io sia velocissimo e non è vero. Certo, non sono una tartaruga, ma la sensazione di rapidità che dò al pubblico deriva probabilmente dalla mia capacità di scattare mezzo secondo prima dell’avversario. È la differenza tra chi compie un movimento per raggiungere la palla una volta giocata dal compagno o dall’avversario e chi lo intuisce prima che questa venga effettuata”. Anche i suoi giocatori, quindi, devono anticipare le mosse, come a scacchi, e andar a prendere il pallone prima degli avversari. Più tardi negli anni, Pep Guardiola ne avrebbe ricavato l’argilla per plasmare il suo tiki-taka e non è un caso che sia proprio questo ragazzo cresciuto alla Masìa a pane e salsa blaugrana la mente intorno alla quale ruotano gli altri dieci giocatori di Cruijff, compreso il portiere.

Il primo anno arriva a Berna il primo trofeo: la Coppa delle Coppe, in finale contro la Sampdoria, un avversario iconico di quello che sarà un ciclo d’oro. Salinas e Rekarte regalano la terza coppa ai catalani. L’anno successivo, il 1990, gli azulgrana portano a casa la Copa del Rey: un altro secco 2-0 agli odiatissimi nemici del Real Madrid. Nel 1990-91, in questa ascesa che sembra infinita, Cruijff conquista la prima Liga da allenatore con dieci punti di vantaggio sugli inseguitori dell’Atletico Madrid. Non senza brividi, perché il suo maledetto vizio del fumo, dopo anni di abusi, presenta il conto salato. A febbraio, lo stress e gli effetti del tabacco creano un serio problema al cuore dell’olandese, che deve affrontare un’operazione di impianto di due by-pass cardiaci. Così, per cinque giornate, dalla 24ima alla 29ima siede in panchina Carles Rexach, poi Johan torna per godersi gli ultimi otto turni ed il meritato successo.

È nella stagione 1991-1992 che, però, il Barcellona diventa vero e proprio Dream Team da consegnare alla storia del calcio. Anni dopo, il futuro presidente Laporta dirà questo di Cruijff: “Generoso, coraggioso, furbo, carismatico. Il gusto per lo spettacolo che diventa arte. Quattro regole semplici: avere la palla, massimo due tocchi, velocità, pressione sull’avversario. Ci ha dimostrato che c’era tutto per vincere, bastava farlo. E per questo bisognava divertirsi. A Wembley, prima della finale di Coppa dei Campioni contro la Sampdoria, disse questo ai giocatori all’uscita dagli spogliatoi: di andar là fuori e divertirsi”. E i ragazzi si divertirono davvero.

La squadra ha una caratteristica precisa: la statura è medio-bassa, ma i “cojones” sono ben pronunciati. Zubizarreta è il cardine, benchè basco di nascita rappresenta in quel momento la Catalogna calcistica: un’istituzione. Ronald Koeman comanda la difesa, è molto dotato tecnicamente e non fa della velocità un suo vanto. Ma i lanci per i compagni, le punte soprattutto, hanno il margine d’errore dei 5 centimetri. L’animo basco, oltre al portiere, scorre nelle vene di Txiki Beguiristain e Josè Mari Bakero e dà alla squadra la tigna giusta per combattere.

Guardiola è colui che tutto sente e dirige l’orchestra in maniera divina. Se fossimo nella serie tv spagnola “La Casa de Papel” lui farebbe sicuramente “El Professor”. Sta lì nel mezzo o, a necessità, sa spostarsi sul centro-destra, così come insegnerà poi anche al suo allievo Xavi in futuro. Davanti la strategia è chiara, si sta stretti, compatti, si gioca qualche metro indietro per creare dei vuoti e degli spazi nei quali lanciarsi e creare i presupposti per far male. L’eleganza ce la mette il signor Michael Laudrup, accarezza la palla come fosse una bella donna e potrebbe essere un playmaker, ma ha una concezione così moderna del gioco ed un raggio d’azione così sconfinato che, praticamente, lì davanti fa un po’ quel che vuole. Se pensate a chi altri ha giocato come lui dopo, sicuramente il maggior riferimento in quanto a stile è Zinedine Zidane, per capirci. Non a caso, nel 1996 proprio Cruijff lo voleva portare al Camp Nou insieme a Ryan Giggs.

L’ennesima lite con il presidente Núñez, una delle tante, almeno quanti i trofei conquistati, porteranno all’addio dell’allenatore e ci priveranno della gioia di poter veder giocare quei due in una squadra che, a quel punto, sarebbe diventata la migliore della storia del calcio. Laudrup garantisce gol e assist, punto di riferimento alto è Julio Salinas, nato a Bilbao e anche lui membro di quella componente basca tosta di quella squadra. A sparigliare le carte, infine, c’è l’Ayatollah bulgaro: Hristo Stoichkov, ex-maresciallo dell’esercito, un blocco di granito dai piedi di fata che ruba nello spogliatoio ai compagni, picchia gli arbitri, ma in campo è capace di trovare il guizzo che decide le partite.

Un fuoriclasse pigro, che sceglie le sue battaglie e sa ampiamente defilarsi quando non ha voglia. E che, nonostante questo, vincerà anche il Pallone d’Oro nel ’94, dopo aver portato la Bulgaria al quarto posto nel mondiale, punto più alto della storia calcistica nazionale. Nel 1993 verrà affiancato da un’altra saetta, ancor più imprevedibile. È il brasiliano Romario, O’Baixinho, che in portoghese significa più o meno “tappetto”, perché è basso e tarchiato. Quando parte in velocità, però, non lo ferma nessuno e in quel Barcellona calza a pennello, perché strappa le partite come pochi.

Ne sa qualcosa Paolo Maldini, che a lui deve una delle sue maggiori incazzature da difensore quando lo affronta in un PSV-Milan di Coppa dei Campioni. Spalle alla porta, il brasiliano palleggia come una foca e calcia in porta in una frazione di secondo, segnando un gol bellissimo e lasciando di sasso il povero Paolo, che ancora oggi si danna per non aver evitato quel gol, con la stessa fermezza con cui però capì in quel momento di avere di fronte un fenomeno. Lo ritroverà a Pasadena in un luglio afosissimo del ’94 e gli darà un dispiacere ancora più grande.

Quel gruppo, forgiato dalla spada del profeta n.14, è un mix di cervello e istinto, in cui la forma e la funzione coincidono e che dà corpo a ciò che Cruijff pensava fosse un’impresa: “Giocare a calcio è molto semplice, ma giocare un calcio semplice è una delle cose più difficili dello sport”.

Quell’anno magico arrivano la Supercoppa di Spagna, la Supercoppa europea e, per la prima volta nella storia, finalmente la Coppa dei Campioni. L’ultima del vecchio calcio, che cede il passo alla moderna Champions League. Il cerchio si chiude, la Sampdoria è l’avversario al quale Johan ha scucito il primo trofeo ed è quello che gli regala l’alloro più importante. La finale di Wembley che le vede opposte è una partita molto equilibrata, con occasioni da entrambe le parti e diverse importanti per Vialli e Mancini che rimpiangeranno per sempre di averle fallite. La partita la decide nei supplementari il difensore-goleador, Ronald “Rambo” Koeman, con un calcio di punizione che è una sassata delle sue e sulla quale nemmeno Pagliuca, in estremo allungo in tuffo, può arrivare.

Altre due Liga consecutive e un’altra Supercoppa di Spagna arriveranno nei due anni successivi e soltanto la superbia e l’appagamento priverà loro della Champions League ad Atene nel ’94, dove il Milan di Capello, da sfavorito, darà loro una sonora lezione di calcio e metterà fine, di fatto, a quella magia che Cruijff aveva saputo creare.

L’ultima eco, forte, si sente nella stagione ’96-’97 per merito di un uomo ironico, intelligente e carismatico: sir Bobby Robson, tutto l’opposto dell’eccentrico Cruijff, ma capace di raccoglierne le redini in un anno turbolento, ancora una volta, nelle stanze dei bottoni. Sostituire una leggenda del genere, amata dai tifosi, poteva essere un peso troppo grande. Ma a Sir Bobby nove mesi prima avevano stravolto la faccia per asportargli un tumore maligno al naso, gli avevano dato tre anni di vita al massimo e gli avevano consigliato di smetterla con il calcio.

Figuriamoci se poteva spaventarlo un semplice confronto calcistico, i problemi erano altri e alla fatidica domanda dei cronisti sul suo predecessore, beh… ecco come se ne uscì: “Non ho paura di prendere il posto di Cruijff, quando il presidente degli Stati Uniti se ne va, devono trovare un altro presidente degli Stati Uniti”. La proprietà vuole affiancargli un uomo del club per guidare la squadra. Ma Robson insiste talmente per avere come vice un uomo in cui crede moltissimo, tanto da esser disposto a versargli anche parte del suo stipendio. È un ragazzo portoghese, studiosissimo di tattica, malato per il calcio e si chiama Josè Mourinho. A sua volta, come assistente c’è un giovanissimo Andrè Villas-Boas, in un curioso domino del destino che li legherà per la vita.

Núñez era presidente da 18 anni e, malgrado questa scelta, voleva in realtà riaprire un altro ciclo, con un altro olandese. E in quel momento Louis Van Gaal rappresentava il massimo disponibile, dopo aver vinto tutto con l’Ajax. In attesa che potesse liberarsi, perciò, il progetto era quello di avere un traghettatore che mantenesse la stabilità, fino all’arrivo del nuovo tecnico. Nel ’98 ci sarebbero state, poi, anche le nuove elezioni presidenziali (poi anticipate al ’97 con la riconferma di Núñez) e per far bella figura con i tifosi bisognava riempire di nuovo lo stadio di bellezza. Ed è grazie a Robson che Luís Nazário de Lima, detto Ronaldo, arriva dal PSV che lui ha già allenato e conosce bene, così come quel brasiliano che gli piace molto.

Il suo futuro dipende da quell’acquisto. E lo lavora, trasformandolo da diamante grezzo in un Golden Jubilee da 500 carati. Ronaldo e Mourinho (e Villas-Boas, ok), se sappiamo chi sono lo dobbiamo a Sir Bobby Robson. La squadra viene rinnovata, il faro resta Pep Guardiola, accanto a lui un furetto come Iván de la Peña, dietro i colonnelli Laurent Blanc e Fernando Couto, a destra c’è Gica Popescu. Freccia destra Luis Figo, freccia sinistra Luis Enrique. A intermittenza, Stoichkov continua ad accendere la luce. In porta un altro portoghese, Vitor Baia. Subito porta a casa la Supercoppa di Spagna contro l’Atletico Madrid: 5-2, risultato eloquente. Ma non basta, Robson sa di camminare sopra un filo sottile che separa il calcio dalla politica, molti giornali a metà stagione, nonostante i risultati positivi, criticano la squadra a prescindere, anche dopo un 8-1 in casa c’è chi pensa che quelli là non giochino a calcio.

C’è chi apostrofa senza rispetto sir Bobby come “il peggior allenatore del mondo”. Robson sa bene di essere una pedina, è Núñez il personaggio da abbattere, perciò affronta il momento con il sorriso e va avanti. Il consiglio direttivo vorrebbe farlo fuori per sopravvivere, il Newcastle lo tenta nel gennaio del ’97, ma lui tiene la barra dritta e all’ultimo momento declina. Sa di poter condurre in porto una nave vincente. Pensa di doverla guidare per due anni, non sa che al termine della stagione verrà rimpiazzato. Anzi, pure prima. Nei quarti di Copa del Rey infatti, sotto di tre gol al Camp Nou contro l’Atletico Madrid, con i tifosi che vogliono la sua testa e quella del presidente, l’esonero è praticamente già firmato.

C’è anche Van Gaal sugli spalti, spettatore interessatissimo. In avvio di ripresa Robson toglie Blanc e Popescu, inserisce Stoichkov e Pizzi e la squadra avvia una rimonta che ha del leggendario. La partita finirà 5-4, tripletta di Ronaldo, gol di Figo e proprio Pizzi, che mette dentro la palla che vale la qualificazione. Un trionfo mai visto, un’emozione che i presenti in campo conservano forte ancora oggi. Mourinho nella sua libreria ha un VHS di quella partita. In quel momento Josep Guardiola capì di voler fare veramente l’allenatore.

Poco dopo il Barcellona quella coppa la vincerà e lo farà al Bernabeu, il tempio del Real Madrid, contro il Betis Siviglia. In una sola stagione, tre coppe portate a casa, ma non bastano per la riconferma dell’allenatore. Ronaldo segna 47 gol ed è per lui la migliore stagione di sempre. Viene venduto per la cifra record di 48 miliardi di lire all’Inter e lì finisce un ciclo mostruoso, cominciato nove anni prima con un ammutinamento. Forse il Napoli può cominciare a sognare? Si scherza su… (o no?).

 

Roberto Tortora
Roberto Tortora
Laureato in Scienze della Comunicazione, a Salerno. Master in Giornalismo IULM, a Milano; Giornalista professionista.

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Nel panorama calcistico internazionale, storicamente parlando, non sono mancati presidenti di club diventati autentici personaggi per le proprie "imprese". Mangia-allenatori, scaramantici, rissosi, corrotti. Ma...
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