Le giustificazioni del gesto di Ribéry svelano l’ipocrisia nella lotta alla violenza sugli arbitri

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La radio, spesso, ci regala involontariamente dei racconti, degli spaccati di realtà che, durante un viaggio, possono portarci a riflettere a lungo, talvolta anche quando siamo ormai giunti alla nostra destinazione. Ieri sera, proprio mentre tornavo a casa, mi sono imbattuto in un programma di una nota radio nazionale in cui si tornava a parlare del gesto furibondo compiuto da Franck Ribéry domenica sera verso l’assistente arbitrale Passeri, spintonato in maniera evidente per ben due volte al termine della gara persa contro la Lazio.

Una reazione inattesa da parte del campione francese che ha fatto molto discutere i tifosi della Fiorentina in queste ore. Le voci discordanti sono state tante e l’autore del servizio ha cercato di riportarne il più possibile attraverso una serie di interviste per far comprendere lo stato d’animo dei supporter viola. E così la mia attenzione è stata subito catturata. Perché oltre ai tifosi che condannavano il gesto senza troppi se, sottolineando che un campione della sua esperienza non dovrebbe perdere la testa in questa maniera, senza considerare il danno che avrebbe provocato alla sua stessa squadra subendo una lunga squalifica, c’era anche chi tentava, in un modo o in un altro, di giustificare il gesto: c’era chi sosteneva fossero state “due carezze”, ma anche chi provava ad attenuare le colpe, affermando che fosse stato un gesto dettato dall’emozione, dall’adrenalina del gioco e “dal fatto che sentisse già molto la maglia”.

Inevitabilmente, una serie di domande ha cominciato ad assillarmi: quanti giocatori, più o meno giovani, di squadre più o meno importanti hanno visto il gesto di Ribéry? E quanti di questi pensano che, in fondo, sia normale spingere un assistente arbitrale se sei arrabbiato per una partita andata storta, annebbiato dalla furia e dall’adrenalina?

La risposta l’ho trovata leggendomi, come mi piace spesso fare, le decisioni del giudice sportivo nella mia regione. E anche negli scorsi week-end, è stato un bollettino di guerra. Continue squalifiche a singoli calciatori e dirigenti per aver insultato l’arbitro o aver compiuto una qualche forma di violenza fisica, centinaia di euro di multe per tante, troppe società. E mi sono reso conto che, in fin dei conti, siamo solo degli ipocriti quando preannunciamo un cambiamento, una voglia di svoltare solo quando si sfiorano le tragedie, come avvenuto mesi fa. La situazione non cambia, o almeno non come dovrebbe.

Le multe potranno essere sempre più salate, le squalifiche più dure, ma la cultura di fondo resta immobile, immutata. Se Ribéry, un campione del calcio (anche se stavolta, molto meno sul piano umano) può permettersi di spingere un arbitro in diretta televisiva, davanti a tutti, per poi essere giustificato con un “sente la maglia”, allora perché dovrebbe comportarsi diversamente il ragazzo della squadra di provincia?

I calciatori professionisti dimenticano di essere il modello per tutto il calcio e se il gesto di un Ribéry non può certo spaventare più di tanto un assistente di Serie A, protetto da polizia e, soprattutto, dagli occhi del mondo intero, il medesimo atto compiuto da un giocatore delle nostre province o regioni verso un arbitro di sedici, diciassette o diciotto anni tutto solo in mezzo al campo potrebbe avere esiti ben diversi. Conseguenze gravi che un semplice “è l’adrenalina del gioco” non potrebbe mai giustificare.

Francesco Moria
Francesco Moria
Nato a Monza nel '95, ha tre grandi passioni: Mark Knopfler, la letteratura e il calcio inglese. Sogna di diventare giornalista d'inchiesta, andando a studiare il complesso rapporto tra calcio e politica.

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