Il Leader e il Presidente

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La porta di legno impiallacciato si chiude dietro le sue spalle. 7.30 AM, davanti a lui la strada che ogni mattina percorre. Corsa, esercizi, corsa, esercizi. Insomma, nulla rispetto a quando era il miglior giovane quarterback in NFL, ma abbastanza da rimanere in forma qualora quella diavolo di chiamata arrivasse. Un’ora e mezza dopo il sole è alto, la domenica avvolge gli Stati Uniti d’America, lui si lascia sprofondare sul divano di tela e accende il televisore.
Ci sono i Baltimore Ravens, coloro che gli tolsero il Vince Lombardi Trophy in una eccitante notte in Louisiana. Sa bene che non sono stati loro a renderlo un disoccupato negandogli quell’alloro.
Sa che lui non gioca più perché è il più grande leader che gli States abbiano avuto negli ultimi diciotto mesi.
Tale contraddizione lo stravolge, come sempre; la chioma afro sfiora blanda lo schienale e i suoi occhi si posano su Ray Lewis che sulla sideline di Wembley affonda il ginocchio nel terreno, mentre lo Star-Spangled Banner non è mai sembrato così vuoto.

Dicono che parlando in pubblico sia meglio immaginarsi gli interlocutori tutti nudi per vincere l’emozione e la timidezza. Lui lo fa da decenni. E insomma, il salto da palazzinaro a Presidente degli Stati Uniti d’America consta di immaginare nude moltissime persone. Per quello ha il tipico atteggiamento istrionico mentre parla alla folla.
La chioma bionda, che sa bene risultare posticcia ai loro occhi, si muove a causa delle sue parole scattanti, forti, addirittura dominanti. Rimpiange che al posto del podio dal quale sta parlando non ci sia un trono, tipo quello di Carlo Magno, di Montezuma, della regina Elisabetta I.
Questi tre avrebbero fatto fuori i loro nemici, in un modo o nell’altro. Lui pensa di poterlo fare, e allora: “Licenziateli quei figli di puttana!”
Tanto, guardatevi, siete tutti nudi, cosa mai vorrete capire di come si regna… ehm, gestisce la più grande potenza del Mondo e di come bisogna parlare del suo sport preferito.

“Please, raise and remove your hats.”
No, quel giorno, dopo l’ennesimo pestaggio e l’ennesima assenza di presa di posizione del governo americano, Colin Kaepernick non si alzò. Anzi, si inginocchiò. Andava contro i suoi valori andare fiero di uno Stato che fa da schermo alla violenza.
Settembre 2016: il Time, che raramente ne sbaglia una, sbatte quella immagine sulla sua rinomata copertina. Un anno dopo, tutti inginocchiati: presidenti, giocatori, leggende al seguito della squadra, allenatori, proprietari; bianchi, neri, gialli, rossi.

E di certo, se c’è una lezione da imparare, non la impariamo da Donald Trump ma dalla sua nemesi.
Credete nei vostri valori, non abbiate paura di farvi puntare le telecamere addosso, di perdere il vostro lavoro, di amare la vostra intellettualità, di mettere il vostro faccione su tutte le copertine del Mondo.
Qualcuno farà un passo falso, qualcuno che di riflesso vi farà diventare un leader.
Uno di quelli veri, uno di quelli che non si muove per interesse o perché il vento non va più dalla sua parte. Un baluardo, una bandiera imperturbabile, che risalta in confronto a quelle delle più grandi civiltà della storia. Innoverete, farete la storia della razza umana, avrete migliaia di persone che vi imitano. Girerete per le strade con il sorriso di chi è un punto di riferimento, con il seguito dei vati, con l’ammirazione di miliardi di persone.
Uno di quelli che condisce i discorsi a decenni dalla sua morte, sparisce dalle copertine ma che vive nella mente di chi è in grado di pensare.

Il telefono suona, Colin si alza, prende il cellulare dal tavolino tiki all’ingresso, risponde.
“Salve signor Kaepernick, la metto in linea con xxx, general manager dei yyy, attenda.”
Perché, alla fine, quello che possiamo desiderare più di tutto, da appassionati di sport, è che Kap torni a giocare. Quello che poteva fare fuori dal campo l’ha fatto per insegnarci, in un’era di vuoto culturale, quali sono le cose importanti. Concedetemi, quindi, di mischiare realtà e verosimiglianza, intenti e atti, parole e fatti, appelli e rese incondizionate, nel nome del football e della salvezza della sua reputazione.

Ora Colin deve tornare a insegnarci come si gioca a football. E quegli stessi proprietari che si inginocchiano ora devono alzarsi e andare dal loro front office a dire che hanno bisogno di un quarterback, nel fiore degli anni, che sappia correre e lanciare.
Facciano vedere quale dei due leader hanno scelto.

E che non agiscono unicamente per proteggere i loro interessi ed evitare di licenziare la loro principale fonte di guadagno.

Dario Alfredo Michielini
Dario Alfredo Michielini
È convinto la vita sia una brutta imitazione di una bella partita di football. Telecronista, editorialista, allenatore. Vive di passioni quindi probabilmente morirà in miseria. Gioca a golf con pessimi risultati; ma d'altra parte, chi può affermare il contrario?

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