Roma-Napoli di ieri non è stata una partita di calcio bensì un riflettore gigante materializzatosi sotto forma di partita. La sfida dell’Olimpico non ha detto quasi nulla di nuovo ma, anzi, ha sottolineato dati già abbondantemente di dominio pubblico, anche se – in qualche caso – decisamente sottovalutati. Tra questi ultimi è interessante proporne due.

Il primo è il più ovvio: Dries Mertens è un calciatore ben più formidabile di quanto non ci si renda tuttora conto. E, com’è ovvio, lo è immensamente di più di quanto non si pensava potesse essere quando è arrivato in Italia, ormai quasi quattro anni fa. È capitato, lungo l’arco della sua esperienza napoletana, che venisse incensato, senza dubbio. Ma si è trattato di momenti brevissimi, di exploit occasionali, tendenzialmente concomitanti con gol bellissimi o doppiette/triplette decisive, cortissimi istanti intervallati da lunghi silenzi e, qualche volta, accuse gravi di discontinuità. Il dualismo con Insigne, gioiello azzurro in rampa di lancio nel momento del suo arrivo e poi filo diretto tra squadra e città, non lo ha aiutato tant’è che solo adesso il folletto belga sta riuscendo a smarcarsi dall’ingombrante – in senso metaforico, è ovvio – ombra dello scugnizzo col numero 24.

Il secondo è forse meno raccontato a livello mainstream ma ai più attenti osservatori del pallone nostrano non è affatto sfuggito: probabilmente anche il nostro proverbiale nonno in carriola riuscirebbe a segnare qualche rete se giocasse come attaccante centrale in una squadra di Sarri. L’anno scorso l’incontro-scontro tra il calcio del mister toscano e il talento cristallino di Gonzalo Higuaín ha prodotto una stagione terrificante dell’argentino, che ha messo a referto 38 gol in 42 partite tra tutte le competizioni. Quest’anno, contando solo le gare in cui ha giostrato da punta centrale, Mertens ha prodotto 18 reti in 23 uscite. Le marcature sono distribuite in maniera meno omogenea (cioè su meno partite) rispetto al ruolino di marcia dell’anno scorso del Pipita ma le cifre restano impressionanti. Così come non era male la media del Milik pre-infortunio: il polacco aveva segnato 6 volte in 9 gare prima di rompersi il crociato. Il tanto vituperato Gabbiadini sembra essere l’unico a non aver funzionato benissimo là davanti: il bergamasco ha infatti buttato il pallone in fondo al sacco 14 volte in 49 partite disputate sotto la gestione Sarri. Tuttavia, considerando i minuti giocati invece che le presenze, abbiamo 14 gol in 1757 minuti, ossia uno ogni 125’ e mezzo (che vuol dire praticamente tre gol ogni quattro partite). Non malissimo nemmeno lui, in fondo. Tutti questi numeri dimostrano incontrovertibilmente l’assunto del nonno in carriola di cui sopra.

Del resto, chi conosce bene Sarri fin dai suoi trascorsi empolesi non è rimasto sorpreso dall’esplosione realizzativa dei suoi centravanti. Quando andava in scena al Castellani, l’attuale tecnico partenopeo giocava con un modulo differente – il 4-3-1-2 – e il perno della sua filosofia non era il centravanti ma il trequartista, che doveva sfruttare gli spazi aperti dalle due punte, chiamate ad allargarsi in continuazione. Saponara, nei 18 mesi complessivi passati alla corte del buon Maurizio, ha segnato 20 gol in 58 presenze tra Serie B e Serie A: in pratica, quando dispone di una mezzapunta dalla buona vena realizzativa, Sarri sa come trasformarla in una macchina da gol.

A Napoli ha solo spostato il focus realizzativo della sua compagine qualche metro più avanti e ha aggiustato i meccanismi di squadra per compensare la presenza di una punta in meno con gli inserimenti delle mezzali e per suddividere i compiti di assistenza al gol prima riservati alle punte, al regista e al trequartista tra gli esterni e le mezzali stesse (tendenzialmente il suo Napoli sembra meno verticale rispetto al suo Empoli perché il 4-3-3 allarga inevitabilmente il campo da gioco).

Per farla breve: tutto nella filosofia di Sarri porta alla creazione di occasioni da rete e l’unione del suo credo con il 4-3-3 “costringe” (lietamente) il centravanti designato a fruire della maggior mole di chance, quasi per inerzia. In questo contesto già di per sé favorevole, Mertens si è trovato a banchettare in modo pantagruelico, riuscendo a tirar fuori ogni grammo del suo talento realizzativo e consacrando fino in fondo il lavoro fatto su di sé per giocare da seconda punta nonostante la posizione iniziale da esterno iniziato sin dai tempi dell’Olanda, paese dove il 4-3-3 è banalmente un dogma assoluto e dove gli esterni alti devono essere anche uomini in grado di fare da seconda punta. I quattro anni spesi tra Utrecht e PSV hanno forgiato il talento di Mertens che, da trottolino ipercinetico e ipertecnico tutto dribbling e tiro a giro sul secondo palo, è diventato un maestro anche nella giocata senza palla e, soprattutto, nel capire quando deve agire da ala vecchia maniera e quando da seconda punta (non va dimenticato che al PSV ha segnato qualcosa come 45 gol in 88 presenze complessive. Va bene che è calcio olandese ma qualcosa significherà).

In Italia, al di là dell’inevitabile ambientamento, non è mai sceso sotto la doppia cifra a fine stagione considerando tutte le competizioni: quando non è riuscito a segnare in coppa ha fatto spesso gol in campionato, quando invece in Serie A ha faticato era nelle sfide infrasettimanali che dava il meglio sotto rete. Il talento in zona gol, insomma, non è mai stato in discussione: Sarri, vedendo che i suoi meccanismi non funzionavano al meglio con Gabbiadini titolare, ha rispolverato il passato da attaccante quasi puro del belga, l’ha sollevato da ogni compito di raccordo col centrocampo e l’ha riprogrammato per occuparsi solo di fare gol dopo averlo impiegato come sostanziale alter ego di Insigne fino a quel momento. L’accorgimento ha funzionato subito, fin dal varo di Mertens centravanti titolare dello scorso 19 ottobre contro il Beşiktaş (Napoli sconfitto 3-2 ma il numero 14 firma un gol e un assist).

Tutto ciò per dire che la stagione 2016/2017 è probabilmente la prima in cui gli italiani possono ammirare fino in fondo tutte le capacità offensive (e, perché no, creative) di Dries Mertens da Leuven. Ovviamente il paradosso sta nel fatto che il belga compirà trent’anni a maggio e che è in Serie A dal 2013, ormai. Ma la verità è che non lo conoscevamo poi così bene e stiamo capendo solo adesso che giocatore magnifico sia.