Uno, nessuno e centomila rugby: intervista a Pierangelo Ceretti, tra league e giocatori polivalenti

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L’avvicinarsi dei Giochi Olimpici rimette sotto i riflettori la palla ovale. Strumento di gioco di un rugby sempre più visibile, sempre più vivo, sempre meno nicchia.

Esso è sport di massa in diversi paesi del mondo, disciplina in crescita dalle nostre parti, ora nuovamente olimpica. È, soprattutto, congiunzione tra storia e modernità: vi troviamo tracce del vecchio amateurism ma anche una crescita e una professionalizzazione impressionanti, dialogo con la scienza e gli altri sport circa la raccolta di statistiche e dati.

L’intervista a tutta pagina al selezionatore sudafricano Allister Coetzee, pubblicata dalla Gazzetta dello Sport di domenica, ha raccontato al pubblico italiano, magari non sempre abituato a queste sottigliezze e distinzioni, il rugby a 7.

Quello delle Olimpiadi, che si gioca in tempi da 7 minuti e permette – grazie a una formula più snella e a tempi di recupero più brevi rispetto al tradizionale rugby a 15 – all’ovale di rientrare nelle kermesse più universale che ci sia dopo 92 anni, che punta ad attirare anche lo spettatore più scettico su fasi statiche, eccesso di piazzati e tatticismo esasperato.

Ma i nostri lettori, ne siamo certi, a certe distinzioni sono già abituati. Questo grazie alla dignità e allo spazio concesso in questi anni anche al rugby league (e di conseguenza ai 9s, la sua versione snella e da Commonwealth Games), oltre che al rugby union.

Per rimarcare che sì, in fondo parliamo della stessa cosa, ma che la diversità va anche preservata. E raccontata: la scissione del 1895, il professionismo, le aree industriali e operaie nel nord dell’Inghilterra, la diffusione nel New South Wales come nell’area di Auckland (Nuova Zelanda).

Rugby a 13 e 15 “cugini” non sempre amichevoli – a volte nemici: vedi il terribile passato dell’ovale francese – ma ponte tra realtà e generazioni: gli italo-australiani che negli anni 90 rivitalizzano la nostra Nazionale, un mondo che va pian piano costruendosi a metà tra emisfero nord ed emisfero sud.

Nella penisola gli amatori, i giocatori universali (fanno sia 15 che 13) e agli antipodi i professionisti, i paisà. Indispensabili per permettere a uno sport tutto sommato poco diffuso di avere competizioni internazionali combattute e giocate da giocatori di alto livello, freno alla diffusione laddove le federazioni non affianchino loro una progettualità sulla crescita di movimento, campionati e club locali. Homegrown, come piace dire nel mondo anglosassone.

Su questo e altri temi – grazie anche al tramite dell’ufficio stampa della FIRL – riportiamo qui pensieri e parole in libertà di Pierangelo Ceretti. Uomo che vive entrambi i codici del rugby ma anche le loro diverse varietà. Che racconta, descrive, specifica, distingue. Ma soprattutto ama il rugby.

Pierangelo, raccontaci la tua esperienza da uomo di rugby. 

Come la maggior parte dei giocatori dell’emisfero nord, nasco come giocatore di Union ed ho avuto l’opportunità di conoscere molti giocatori ed allenatori, nonché metodologie diverse di allenamento che nel corso degli anni si sono susseguite con l’evoluzione del nostro sport. A questo punto, dopo aver avuto alcune esperienze soprattutto internazionali con il rugby League, ho cercato di farmi un’idea e di capire perché nel rugby union si è sempre più alla ricerca dì giocatori di League o seven. Credo che la risposta sia perché si sta cercando sempre più un giocatore polivalente in grado di intrattenere il pubblico in un sistema di gioco sempre più articolato e spettacolare.

Il “nuovo” pubblico cerca forse un gioco meno statico? 

Sì, infatti basta guardare la TV e vedere lo stile di gioco che le nazionali di tier 1 e 2 propongono in questo momento: un rugby veloce, fisico, tecnico e tattico dove la maggior parte dei ruoli non trova differenza nelle competenze legate al gioco. Ci si distingue solo per le fasi statiche. 

Come si è arrivati a questo punto? 

Se prendo da una partita 20 minuti di gioco effettivo, vedo azioni analoghe al rugby league o al seven (tipico del seven è l’utilizzo del pallone di recupero da parte del triangolò allargato dove si cerca lo spostamento del pallone lontano dal punto d’incontro e dalla linea di difesa). Ad esempio, la fissazione della difesa tramite l’abbondante utilizzo dei finti penetranti con angoli di corsa a chiudere e della seconda linea di attacco per trovare più spazio nel canale difensivo lontano è la medesima utilizzata nel league, con competenze superiori. Certo stiamo parlando di gesti tecnici, ma anche sullo sviluppo del gioco si può notare il tentativo continuo di impegnare i difensori abusando di penetrazioni verticali per poi creare spazio all’esterno (anche questo tipico del 13).

A questo punto la domanda sorge spontanea: cosa è meglio?

Dal mio punto di vista, uno non è meglio dell’altro ma esclusivamente ogni giocatore ha delle caratteristiche che pendono più verso un codice. In particolare credo che il rugby union sia molto complesso e vario rispetto agli altri codici; il problema è che come tutte le cose troppo complesse è di difficile comprensione ai non addetti ai lavori, e di conseguenza perde d’interesse. Non a caso negli ultimi 10 anni il regolamento è in continua variazione per rendere il gioco più gradevole da guardare anche a chi non ha mai giocato.

Che mi dici sul rugby a 7, pronto al suo esordio olimpico a Rio? 

Il seven è legato esclusivamente ad una tipologia dì giocatore che fa della pura velocità la sua unica arma (ormai sembra di vedere una sfida continua tra centometristi).

Io amo molto il league e lo ritengo in generale sottovalutato. Quali sono le sue caratteristiche? 

Il rugby league (nonostante quello che può sembrare) è legato molto alle linee di corsa dei portatori di palla alla continua ricerca di eludere il placcaggio per permettere un utilizzo veloce del pallone (play the ball) che in caso contrario la difesa cerca di rallentare, perché per regolamento per alcuni secondi la difesa può trattenere il giocatore a terra. Ovviamente tutto questo con l’obiettivo di consumare energie ai difensori.

Quale futuro si prospetta e quali opportunità in Italia?

Secondo il mio modesto parere, i club dovrebbero diventare multidisciplinari o polivalenti sui tre codici: nei giovani verrebbero sviluppate tutte quelle competenze che il rugby moderno richiede mentre agli adulti si può dare un’opportunità in più in base alle proprie attitudini e caratteristiche. Infatti non credo che un codice possa “rubare” giocatori o tesserati all’altro, ma invece un club polivalente potrebbe avere un incremento dì tesserati che lavorano per il lo sviluppo in tutte le sue forme. In Italia negli ultimi anni si gioca league d’estate, e c’è sempre un riscontro positivo da parte dei ragazzi; purtroppo in entrambi i casi la difficoltà è il proseguimento dell’attività, dopo una lunga stagione di Union intervallata da periodi morti.

Non diversamente da ciò che accade col seven, insomma. 

Nel seven l’Italia partecipa a competizioni internazionali con giocatori di Union che non giocano a seven in tutto l’anno e nel League il problema è lo stesso.

Convivenza e forse anche collaborazione? 

Le opportunità sono molte soprattutto di incrementare il seguito del nostro sport dalla palla ovale, ma se la proposta si limita a qualcosa di esclusivo una fetta di pubblico e di atleti la si perde. Purtroppo spesso sento allenatori che senza conoscerlo denigrano il rugby league come controproducente, tecnicamente, allo sviluppo dell’union; poi però gli stessi fanno allenare i propri atleti con il rugby touch, dove ci sono i 6 tentativi e la difesa deve andare a 5 metri. Beh, mi sembra rugby league senza placcaggio e calcio.

Un intenso e competente contributo, quello di Ceretti. Sia per i dettagli tecnici che per la proposta di superare pregiudizi e steccati. Colpisce, soprattutto, che rimarchi che il regolamento del rugby sia “in continua variazione per rendere il gioco più gradevole da guardare anche a chi non ha mai giocato“.

Forse la soluzione, come l’intervistato stesso dichiara, è una convivenza funzionale, strategica per gli scopi e le necessità di tutte le forme di rugby. Sport bellissimo che, se anche intende allargarsi, vuole rimanere sé stesso: uno, nessuno e centomila rugby.

Meglio se tutti insieme.

Matteo Portoghese
Matteo Portoghese
Sardo classe 1987, ama il rugby, il calcio e i supplementari punto a punto. Già redattore di Isolabasket.it e della rivista cagliaritana Vulcano, si è laureato in Lettere con una tesi su Woody Allen.

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