Storie di maglie, cuore e libertà: dalla parte di Quagliarella

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L’ultima giornata di mercato invernale si è chiusa, almeno per quanto riguarda le transazioni interne, registrando qualche passaggio interessante per un panorama pallonaro perennemente in moto, in cui i giocatori hanno più familiarità con la valigia che con gli scarpini tacchettati. È il calcio moderno, quello che fa Skyfo a qualcuno ma che ad altri piace assai, quello del “non ci sono più bandiere”, assunto che, pur non annoverandoci tra gli amanti della contemporaneità (tutt’altro), ci sentiamo di contestare appieno.

All’epoca del cartellino in mano ai club, il calciatore era “prigioniero” dei datori di lavoro, almeno sino al momento dello svincolo, quando avrebbe finalmente potuto condurre una trattativa libera e amministrarsi in autonomia. Va da sé che, in quei tempi, le lunghe permanenze coi colori d’una sola squadra, per quanto apprezzabili, erano “dopate” da una costrizione a monte, il che ci fa domandare quale autenticità ci possa essere in una situazione che impedisce la libera scelta. Non è, quindi, paradossale avanzare l’ipotesi che solo adesso si possa parlare davvero di bandiere nel calcio, perché ora, coi giocatori in grado (giustamente) di gestire i propri rapporti contrattuali (l’importante è stare dentro le regole, ma è un altro discorso), chi rimane a vita in un club lo fa davvero per scelta personale. E i casi ci sono eccome: da Paolo Maldini a Francesco TottiDaniele De Rossi, includendo anche un’occorrenza particolare come quella di Totò Di Natale a Udine, benché il longevo partenopeo sia approdato in terra friulana a maturità agonistica raggiunta.

Per le poche, ma certo non inesistenti, bandiere, il cui numero esiguo non fa che impreziosire il valore delle scelte di chi le compie, si registrano anche le parabole di autentici giramondo del pallone, gente che, per qualche motivo, ha cambiato spesso e volentieri casacca. Tra questi, ci colpisce il caso di Fabio Quagliarella, attaccante talentuoso e che, a parere di chi scrive, solo in parte e in alcuni momenti è riuscito a dimostrare davvero il proprio valore.
Finalizzatore di razza, tra i migliori italiani nel “vedere la porta”, lo stabiese è stato recentemente al centro d’una (ritornante) polemica circa l’opportunità di esultare o meno dopo aver segnato a una propria ex squadra. In effetti, il Quaglia, di fresco ritorno alla Samp, vanta cinque ex solo nell’attuale Serie A: non nascondendo il proprio amore per il Napoli (per il quale lasciò, amato e rispettato dai tifosi che tuttora lo rimpiangono, l’Udinese) e non festeggiando una marcatura contro gli azzurri (dai quali ricevette peraltro un trattamento discutibile) è stato “costretto” a spiegarsi a mezzo social per le critiche piovutegli addosso da varie parti.

Chi scrive non è “uomo di calcio”, categoria che un certo atteggiamento omertoso sfodera per difendere d’ufficio l’ambiente sportivo dalle critiche esterne, ma è di avviso diametralmente opposto, nonostante le opinioni di interlocutori certo qualificatissimi, come il buon amico José Altafini, uno che da ex ha recitato non poco in carriera. L’esultanza è (o almeno dovrebbe essere) un momento di libera espressione, in cui certo può manifestarsi la felicità per quell’orgasmo del calcio che è il gol (magnifica definizione di Eduardo Galeano), ma devono poter affiorare anche altri sentimenti, peraltro umanissimi, compresa la “riconoscenza” verso una squadra cui si è stati precedentemente legati.

A dar la stura alle “non esultanze” fu, ci pare, quell’Abel Balbo che, coi colori della Roma, non se la sentì di festeggiare un gol proprio a Udine, contro i bianconeri che lo portarono in Italia per lanciarlo nel grande calcio. A chi sostiene come l’esultanza dovrebbe far parte dei “doveri” di un atleta, rispondiamo che il calciatore deve, per contratto, assicurare il massimo impegno sul campo per quello che riguarda il gioco, ma, quanto a espressioni emotive, la libertà dovrebbe essere assoluta.
Nel caso d’una punta, il “dovere” è segnare, non festeggiare: in tal senso, il caso limite che ci sovviene è, semmai, quello di un altro calciatore adorato da chi scrive, ma per una volta protagonista d’un gesto davvero “inaccettabile”. Parliamo del Divin Codino, Roberto Baggio, che, il 6 aprile 1991 in occasione di Fiorentina-Juventus, si rifiutò di tirare un rigore con la maglia bianconera per non danneggiare la propria ex squadra, verso cui provava una profonda riconoscenza. La successiva giustificazione (“Il portiere Mareggini mi conosceva benissimo e avevo chiesto a Maifredi di non tirare eventualmente dal dischetto“) non suona soddisfacente, né convinse al tempo i tifosi della Vecchia Signora, pure alla luce dell’errore da parte del “sostituto” tiratore Gigi D’Agostini. Ecco, in quel caso, la “libertà” reclamata dal giocatore ci pare davvero criticabile e non rapportabile all”espressione estemporanea di un sentimento affettivo.

Esultare è godere: non ci pare accettabile l’idea di chiedere a un giocatore, che già ha svolto correttamente il proprio dovere da professionista, di fingere l’0rgasmo per contentare i tifosi sugli spalti. È una richiesta ingiusta e pure un po’ ipocrita. Per questo, se Quagliarella in futuro segnerà a una delle sue ex squadre (compresa la nostra) e non si sentirà in animo di festeggiare la marcatura, saremo i primi ad applaudirne la libera scelta.
Lasciatemi divertire” scriveva il poeta Aldo Palazzeschi, circa un secolo fa: “Lasciateli (non) esultare“, diciamo noi, a difesa di tutti i giramondo con la valigia sempre in mano e un cuore riconoscente.

Igor Vazzaz
Igor Vazzazhttp://www.losguardodiarlecchino.it/
Viareggino di origine friulana, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Collabora con varie testate, cartacee e web. Talvolta, pubblica libri e dischi. Tifa Udinese. Il suo cane è pazzo.

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