Jonah Lomu si è fermato

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Ci sono campioni che arrivano a identificarsi completamente con lo sport che praticano. E anzi, a travalicare il proprio ruolo quali atleti, per imbracciare quello di celebrità di talento: ovvero, per diventare testimonial di se stessi e della propria disciplina. Dici Michael Jordan, e subito ti si apre un mondo.

E dici Jonah Lomu, e se ne apriva un altro, quello del rugby. Icona della versione più moderla di questo sport, e della svolta verso un professionismo sempre più spinto. Soprattutto, paradigma di un atleta vero in una disciplina che a partire dagli anni Novanta ha fatto nuovi proseliti in tutto il mondo.

A detta di molti, è stato un gigante buono: gigante sicuramente (alto quasi due metri, peso oltre i 115 chili). Sul buono, dipende soprattutto dall’avversario di turno: i tanti oppositori che hanno cercato invano di fermarne la potenza unita alla velocità potrebbero pensarla diversamente. Quando ai mondiali sudafricani (quelli dell’apartheid appena finito, quelli del ritorno del Sudafrica nel consesso civile) si accende la sua fiamma, per tutti è qualcosa senza precedenti. E, si presume, senza eredi possibili.

Era un carro armato, Lomu: inarrestabile. Così pesante il suo quintale e oltre, così leggera la sua falcata; spalle larghe, petto in fuori e quel minimo di spavalderia che aggiungeva un tocco ancora più distaccato a una figura da bulldozer.

Ha cambiato il rugby: se non soltanto sul campo, di sicuro anche come immagine. Vero, è stato favorito anche dal periodo storico: abbiamo già accennato ai mondiali del 1995 (poi immortalati dal libro di John Carlin Invictus, tradotto sullo schermo da Clint Eastwood), ma a rendere ancor più evidente il suo potere in campo arriva anche la nuova ondata televisiva, con lo sport a tutte le ore e le immagini che vengono rimbalzate in tempo reale.

A guardare bene, la carriera di Lomu non è neppure stata lunghissima: rivelatosi al mondo nel 1994 (il più giovane di sempre tra gli All Blacks: aveva 19 anni e 45 mesi, quando ha esordito in nazionale), esploso fragorosamente un anno dopo, a fine 1996 gli viene diagnosticata la malattia ai reni. Un altro grande mondiale nel 1999, poi un principio di rallentamento: sempre troppo forte, sempre decisivo, ma diviene più un’arma di rottura che un giocatore cardine (nel 2002, la Nuova Zelanda lo porta sempre in panchina).

Un Lomu “alla Altafini” che viene fermato dal peggiorare della malattia. Dopo un trapianto di rene, tornerà a solcare i campi da rugby soltanto nel 2005, e dopo avere ottenuto un permesso speciale dalla WADA (l’agenzia mondiale antidoping): tra i medicinali anti-rigetto ne figura uno che è tra le sostanze vietate. Ottenuto il nulla osta, si torna in campo, e non ci sono dubbi di sorta, perché Jonah Lomu non aveva certo bisogno di aiuti: era il più forte di tutti ben prima di dovere subire interventi, lui.

Si dirà: ci sono molti campioni e molti leader in giro, mai come oggi. Ce ne sono stati, e ce ne sono tanti: Andy Irvine, Danie Gerber, John Kirwan (visto anche in Italia), David Campese, Joost van der Westhuizen (oggi colpito da SLA), a suo modo anche François Pienaar, fino a Jonny Wilkinson. Vero, verissimo. Ma nessuno di loro ha davvero segnato un’epoca come Jonah Lomu, quel gigante buono così potente che soltanto una brutta malattia ha potuto fermare.

Pietro Luigi Borgia
Pietro Luigi Borgia
Cofondatore e vicedirettore, editorialista, nozionista, italianista, esperantista, europeista, relativista, intimista, illuminista, neolaburista, antirazzista, salutista – e, se volete, allungate voi la lista.

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