Non è un nuovo 2010

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La reazione potrebbe benissimo essere questa: dopo la disfatta di Natal sarebbe anche facile etichettare Brasile 2014 sotto la voce “Vedi Sudafrica 2010”, archiviarlo e guardare già avanti. Quasi banale.

Eppure delle differenze ci sono e qualcuna anche notevole.

Prima di tutto, lo sciagurato Lippi bis fu come uno stranissimo flashback: la Figc decise di rimettere in sella l’ex allenatore della Juventus dopo che Donadoni aveva traghettato (e decisamente rinnovato) la squadra nel biennio 2006-2008; il nuovo avvento del tecnico viareggino fu una sorta di decorso del continuum spazio temporale, con l’Italia improvvisamente ripiombata alla situazione post Euro2004 ma, semplicemente, quattro anni dopo. E con enormi differenze tecniche, prima di tutto fra i giocatori convocabili (per dire, Nesta e Totti avevano entrambi lasciato la causa azzurra per dedicarsi unicamente ai club di appartenenza).

Chissà chi avrebbe portato in Sudafrica Donadoni se fosse toccato a lui: non lo sapremo mai. Di certo però sappiamo chi ha portato ai Mondiali Marcello Lippi: una squadra infarcita di ultra-trentenni palesemente a fine corsa (tra i quali val la pena ricordare il peggior Fabio Cannavaro della storia che arrivava anche da una tragica stagione alla Juventus, un Gennaro Gattuso stanco e sfibrato, uno Zambrotta che era l’ombra di se stesso, un Camoranesi senza più spunto e uno Iaquinta ormai statico) più sette quasi esordienti dell’epoca, con alle spalle pochissimi gettoni azzurri (Bonucci, Pazzini, Marchisio, Bocchetti, Marchetti, Maggio e Criscito), oltre a qualche onesto mestierante raccattato per la spedizione su indicazioni della Serie A di quell’anno (Pepe, Palombo, Quagliarella). La visione calcistica dell’allenatore Campione del Mondo a Berlino era iper conosciuta: Lippi voleva il “suo” gruppo di giocatori fidatissimi, formato da quanti più reduci possibili di quattro anni prima. Calciatori ai quali sapeva di poter chiedere più o meno qualunque cosa sapendo di venire accontentato, un ensemble di uomini che giocassero soprattutto da squadra e fossero in grado di buttare il cuore oltre l’ostacolo sempre e comunque. Tutti concetti molto belli, encomiabili addirittura, se non fosse per un piccolo particolare: mancava completamente la qualsivoglia parvenza di un progetto tecnico.

In sostanza, quella squadra aveva tutto meno che un gioco consolidato od organico. L’unica luce in mezzo al rettangolo verde era quella di Andrea Pirlo che, però, com’è noto, non giocò le prime partite per infortunio e scese in campo solo nella famigerata ripresa con la Slovacchia. L’allora regista del Milan accese da solo la luce sostanzialmente predicando nel deserto (e su una gamba sola, particolare non del tutto trascurabile) ma come tutti sanno non fu nemmeno lontanamente sufficiente per evitare la tregenda. Il piroscafo azzurro del Lippi bis naufragò senza possibilità di salvezza nel mare della sua mediocrità tecnica e tattica e della sua palese inadeguatezza fisica.

Film rivisto negli ultimi dieci giorni? Se vogliamo ridurre il discorso a così poche parole forse sì. Ma sarebbe un’analisi superficiale forzata dalla scarsa condizione atletica (ancora, sic!) che ha un po’ nascosto una realtà più complessa perché, se Prandelli s’è sforzato di fare qualcosa, questo è stato cercare di dare una precisa identità di gioco alla Nazionale, un’identità fatta di possesso palla e dominio tattico delle partite, a prescindere dai giocatori.

Questo era l’obiettivo primario del mister di Orzinuovi: che ci sia riuscito o no giudichi il lettore ma di sicuro, nell’ultimo quadriennio, un progetto tecnico c’è stato e questo lo può riconoscere anche un detrattore di Prandelli. L’ex allenatore della Fiorentina ha provato a dare un’identità forte alla Nazionale, fin troppo spesso imbrigliata nel talento dei suoi uomini migliori e il fallimento (parziale, non dimentichiamo la finale degli Europei e il miglior piazzamento in Confederations Cup mai avuto dello scorso anno) di questo ideale tecnico e del progetto che ne derivava è qualcosa di più amaro rispetto all’orrenda fine dell’armata Brancaleone sudafricana dove, in fondo, sapevamo che non potesse terminare altrimenti (e moltissimi se lo aspettavano già dopo la prima mezz’ora contro il Paraguay). Stavolta, come agli Europei e nella Confederations Cup, speravamo che la “mano del Ct” si vedesse di nuovo e che l’Italia potesse supplire ai suoi limiti atletici e tecnici (leggi: l’assenza di tanti grandi campioni) con l’identità calcistica che Prandelli ha cercato di infonderle negli ultimi quattro anni. Che poi non sia successo è sotto gli occhi di tutti ma questo significa che non solo la Nazionale ha deluso sul piano dei risultati ma anche che l’identità di squadra, per una volta fatta dal gioco corale e non dai singoli, è andata a farsi benedire.

I perché di quanto accaduto stanno pian piano uscendo fuori in queste ore e senz’altro verranno sviscerati in lungo e in largo ma qui non è il momento né il luogo: limitiamoci solo al nostro confronto tra gli ultimi due Mondiali a cui ha partecipato l’Italia.

Altra fondamentale differenza col 2010: allora Lippi cercò di riesumare quanto restava del suo gruppo precedente per un ultimo, improbabile colpo di coda di un ciclo ormai terminato, una sorta di accanimento terapeutico calcistico; oggi la disfatta azzurra assomiglia invece alla brusca fine di una fase che sarebbe dovuta terminare più avanti di così. La Nazionale di oggi, dopo questi (Uru)guai brasiliani, appare come una creatura monca, un soggetto calcistico che voleva vivere e che invece è stato abbattuto. Dopo il Sudafrica si doveva radere al suolo, rifondare, ripartire da zero. Oggi invece ricostruire. E solo a prima vista può sembrare più facile perché allora, perlomeno, Prandelli si poté permettere di fare tabula rasa mentre oggi, chi arriverà, dovrà per forza fare i conti con le macerie. Nel 2010 era evidente che gran parte degli Azzurri non sarebbero più apparsi in Nazionale, chi per limiti anagrafici e chi per non sufficienti qualità tecniche. Oggi invece l’Italia dona tanti e tanti punti interrogativi ai quali il nuovo Ct dovrà per forza trovare una soluzione (due su tutti: che fare di Balotelli? Sarà Verratti il nuovo faro del centrocampo?).

Una terza differenza sostanziale: il Lippi bis non lasciò particolari giovani dai quali ripartire (c’erano solo due Under 23, Bonucci e Criscito) ma solo le certezze Buffon, De Rossi, Pirlo e Chiellini. Oggi invece questa Nazionale conta già al suo interno vari giovani potenzialmente titolari delle prossime incarnazioni azzurre come Verratti, De Sciglio, Insigne, Immobile, Perin, Darmian, Balotelli o giocatori arrivati tardi in Nazionale ma senz’altro confermabili nel breve, come Candreva, Cerci o Sirigu. Dunque questa volta c’è un’eredità che andrà valorizzata.

Lo stesso vale per l’ideale di gioco prandelliano: proseguire sulla falsariga del mister bresciano o provare a reimpostare la squadra su nuove caratteristiche tattiche e un nuovo impianto di manovra? Di sicuro la compagine una sua idea ce l’ha: quella resta. È l’altra parte dell’eredità dell’ex allenatore della Fiorentina.

In sostanza, la débâcle con la quale facciamo i conti oggi è un enorme, gigantesco punto interrogativo. Sudafrica 2010, nel suo tragicomico epilogo, rappresenta invece un punto fermo (con tanto di “a capo”) in quello che è stato il ciclo della nazionale italiana degli anni duemila.

Sarà più difficile ripartire, adesso, rispetto a quattro anni fa? Probabilmente sì. Come fare a ritornare in alto? Il cantiere verrà aperto il prima possibile, la strada che traccerà la scopriremo presto.

Intanto, smaltita la delusione, parliamone, ché è sempre più utile che piangere.

Giorgio Crico
Giorgio Crico
Laureato in Lettere, classe '88. Suona il basso, ascolta rock, scrive ed è innamorato dei contropiedi fulminanti, di Johan Cruyff, della Verità e dello humour inglese. Milanese DOC, fuma tantissimo.

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