Le lacrime dell’uomo vero

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Ieri notte, all’incirca verso le cinque, per la prima volta nella storia un italiano si è laureato campione NBA. Un risultato fantastico, specie per come è arrivato: all’interno di una squadra meravigliosa, che ha giocato una pallacanestro magistrale, celestiale, ammaliante e soprattutto abbagliante per gli avversari. Senza fare del patriottismo fine a se stesso, Marco Belinelli non ha disputato la finale dei suoi sogni; non ha realizzato trentelli, non ha spaccato in due le partite come per esempio ha fatto Patty Mills, un aborigeno che in gara 5 ha deciso di prendere la partita, girarla a piacimento prima di ucciderla come il più freddo degli assassini, e non ha decisamente replicato le prestazioni della regular season. Premesso questo l’idolo di San Giovanni in Persiceto, un paesino di 25mila abitanti vicino Bologna, ha però un grande merito che ha, tra l’altro, caratterizzato gli ultimi anni della sua esperienza oltreoceano; si è fatto trovare pronto sotto molti punti di vista. Tatticamente perché ha spesso fatto la cosa giusta al momento giusto, a parte in quel cambio mancato con Boris Diaw, ma anche tecnicamente perché in gara 1 ha sfiorato la doppia cifra, in gara 3 ha realizzato la tripla che ha riportato a +10 di vantaggio gli Spurs, in un momento in cui il canestro si era fatto piccolo piccolo, e nell’ultimo atto della serie ha realizzato, in quei pochi minuti concessi da Popovich, un fly by su Allen con tanto di palleggio, arresto e tiro che ha trovato il fondo della retina. Scusate se è poco.

Le spaziature degli Spurs, l’altruismo di ogni singolo giocatore e la sete di vendetta hanno fatto il resto; Duncan ha pennellato pallacanestro come se avesse appena compiuto 25 anni, mentre a Ginobili per qualche minuto sono addirittura tornati i capelli lunghi, deliziando il pubblico dell’AT&T Center con una schiacciata che tra qualche decennio rivedremo con la stessa nostalgia con la quale oggi guardiamo i canestri di Larry Bird e Magic Johnson. Parker ha disputato una gara 5 in crescendo, mentre Diaw ha smentito il fatto che per giocare in NBA è necessario essere atletici e veloci: portarsi dietro quel fisico, specie cambiando su ogni pick and roll avversario non è cosa facile, specie se poi in attacco diventi Re Mida, trasformando qualsiasi pallone in oro. Chiedere a Tiago Splitter per maggiori informazioni.

Dall’altra parte, in campo, c’è stato un gladiatore che ha cercato di portare sin da subito l’inerzia della partita dalla propria, ma i neroargento ieri non li avrebbe battuti nessuno, specie con un Wade così spento e un Bosh trasformatosi in brutto anatroccolo. Onore a un giocatore che potrebbe aver disputato l’ultima partita con la canotta degli Heat, specie se la dirigenza non dovesse rassicurarlo dal punto di vista tecnico; non sono mai stato un fan di Lebron James, ma se le vittorie ti raccontano indirettamente che giocatore sei, lo stesso deve valere nelle sconfitte. Nel 2011 l’aveva praticamente persa lui, incaponendosi in scelte sbagliate nei momenti che contavano: ma stavolta che colpa puoi dare a un fenomeno che, prima della partita, dice ai compagni “follow my lead” e ne mette 17+6 solo nei primi dieci minuti? Nulla, puoi solo inchinarti e dire grazie al fato per avere l’opportunità di vedere le sue gesta.

Tornando a quella che è la notizia del giorno, almeno per chi vive in Italia, l’umiltà di Marco Belinelli non la si scopre certo stasera. La sua storia dev’essere da esempio per migliaia di ragazzini che, oggi giorno, si avvicinano alla pallacanestro, ma anche solo allo sport in generale; mai mollare, mai smettere di credere nel proprio sogno. E il suo sogno era di stringere tra le braccia, prima o poi, quel Larry O’Brien Trophy che da ragazzino, facendo le nottate come tutti quanti noi, ha visto alzare dai più grandi; ora nell’Olimpo dei grandi c’è anche lui, il ragazzo che la scorsa estate ha rinunciato a qualche milione di euro in più per mettersi a disposizione di coach Gregg Popovich. E se hai avuto a che fare con allenatori come l’ultimo Don Nelson e Jason Triano, non puoi dire no.
Che avesse un carattere forte lo si era capito sin dall’inizio, quando si riciclò da folletto impazzito a quadrato specialista sui due lati del campo, diventando più che solido anche nel fondamentale che ha sempre pagato, la difesa. E poi quella tripla contro i Nets, mostrando a tutti che gli attributi o ce l’hai non ce l’hai. Non ho idea se Gentile verrà effettivamente chiamato, anche solo al secondo giro, al prossimo draft ma se mai qualcuno decidesse di spendere anche un solo penny su di lui, non posso che augurarmi che l’atteggiamento di Alessandro riprenda quello di Marco e Gigi, due che prima di imporsi hanno fatto molta, molta panchina; anzi, correggo il tiro, Datome in NBA dalla panchina non si è ancora alzato, ma lo farà presto.

Quello che ci hai insegnato, però, caro Marco va oltre alla pallacanestro, va oltre a un pick and roll ben eseguito o una tripla dall’angolo. Ci hai insegnato che le emozioni vere, quelle profonde, ti colpiscono quando meno te lo aspetti; fa poca differenza che sia davanti alle telecamere o al telefono con i propri cari, perché i sentimenti non si possono controllare sempre. E quelle lacrime le hanno condivise in molti ieri notte, anche persone che non sapevano nemmeno chi fossi sino a ieri, perché quando un ragazzo si commuove perché nessuno ha creduto – sbagliando – in lui, non si può non apprezzare. Non so quante volte ho ripetuto quel “MAMMA MIA!”, diventato ormai un tormentone nel Texas, nell’ultimo anno guardando i tuoi highlights la mattina presto, e averti sostenuto anche quando a te veniva preferita gente come Sonny Weems o Antoine Wright, non propriamente Manu Ginobili e Kawhi Leonard, mi rende orgoglioso di poter condividere la stessa bandiera con te, quella bandiera che hai fieramente indossato in mondovisione, quella bandiera con cui ti sei asciugato le lacrime mentre parlavi di quanto fossero speciali mamma e papà. La strada è stata tracciata, adesso spetta a te e agli altri italiani in NBA percorrerla e ripercorrerla, rendendo orgogliosi di voi migliaia di persone che, ogni notte, vi spingono nonostante la sveglia suoni soltanto qualche ora più tardi. Ma non è mai troppo tardi per sognare: questo ce l’hai insegnato tu, Marco.

Alessandro Lelli
Alessandro Lelli
Nato a Genova nel maggio 1992; è un appassionato di calcio, basket NBA e pallavolo (sport che ha praticato per molti anni). Frequenta la facoltà di Scienze Politiche, indirizzo amministrativo e gestionale.

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