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Argentina, casa dei campio’

Ci siamo da poco lustrati gli occhi con il 3-4 rifilato dal Barcellona al Real Madrid nel clasico di Spagna: una partita sublime, una sfida tra due squadre che hanno elargito lezioni di calcio al mondo intero. Tempo un turno infrasettimanale di Serie A in cui, di cose clamorose, ne sono accadute ben poche, poi riecco il fine settimana, con il suo consueto bagaglio di calcio a saziare la nostra voglia di spettacolo.

Appuntamento obbligatorio, domenica notte, con la partita che in Argentina è l’equivalente del Superbowl in America: la Nazione si ferma, e non solo lei. Boca Juniors-River Plate è una sfida che attrae su di sé l’attenzione del mondo intero. E no, non venite qua a dirmi che il tasso tecnico di quel calcio là è inferiore rispetto a quello europeo: laggiù, dove il sole batte forte, è la passione, la garra, a fare la differenza. Il talento, poi, funge da quid in più, che sì, è sicuramente importante, ma no: non è fondamentale. Perché è la storia che lo dice: il cuore, in queste partite, in questa partita, fa la differenza.

All’andata, El Puma Gigliotti, ex Novara, risolse la partita insaccando l’assist del Burrito Martinez. Finì 0-1, con gli Xeneizes che ammutolirono un Monumental stracolmo di tifosi, sì, ma solo del River: fu infatti vietato l’accesso allo stadio ai sostenitori del Boca per motivi di ordine pubblico.

E dire che il primo Superclasico fu un amichevole. Una sfida tra le due squadre del barrio de la Ribera, conosciuto più comunemente come il quartiere de La Boca. Correva l’anno 1908, e il Boca Juniors, in un assolato giorno di agosto, batté il River Plate per 2-1. Si dovettero aspettare cinque anni per la prima sfida ufficiale. Finì di nuovo 2-1, ma stavolta per i Millionarios: sempre agosto, sempre caldo, sempre garra, sempre un’infinità di passione.

Calcio giocato, tifo vero sugli spalti, mille battaglie sul terreno di gioco nel corso degli anni, e anche il ricordo di una tragedia, quella del Cancello 12: 23 giugno 1968, settantuno giovanissimi tifosi morirono schiacciati, nessuno sa come, nessuno sa perché, all’ingresso del Monumental. Quell’episodio, tutt’oggi, è il disastro legato al calcio più grave dell’Argentina.

Passano gli anni, le sfide si infiammano. Si scoprono talenti, molti poi venuti da quest’altra parte del mondo. Los hinchas (le tifoserie) si specializzano nelle coreografie e negli sfottò (indimenticabile nel 2008 la Doce, l’hinchada del Boca: accolse il pullman dei Millionarios tirandogli contro valanghe di piume di gallina e mais), il SuperClasico incrementa la propria importanza e inizia a regalare spettacolo, grazie all’avvento dei nuovi media, anche al di fuori dei confini nazionali. Il River se l’è vista brutta qualche stagione fa, con quella retrocessione che punta a essere, nei suoi tifosi, solo un lontano ricordo; il Boca ha forte voglia di urlare al mondo che il suo blasone è intatto, e che la voglia di imporsi è sempre e comunque tanta. Parlavamo di garra qualche rigo più su: ciò che qui da noi a volte, incredibilmente, manca. La garra, già: ciò che rende il calcio argentino più vivo, forse unico. Ciò che rende quel tipo di Fútbol più vicino a quello nostro anni novanta. Quel calcio che spesso rimpiangiamo, che invidiamo qua e là nel mondo, e che purtroppo, oggi come oggi, ci è concesso oramai solo viverlo da estranei.

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