Le conseguenze di essere veri come Michael Sam

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Sei piedi e due pollici (189 centimetri), 260 libbre (118 chilogrammi), finalista di tre diversi premi per i giocatori difensivi del football di college, capolista per placcaggi per perdita di yard nella SEC, la migliore delle divisioni dello sport universitario americano. Nato a Hitchcock, Texas, arruolato dall’università del Missouri nel 2009.
Un’infinita serie di valutazioni che nel caso del soggetto di questo editoriale recitano: “Esplosivo sulle gambe”, oppure “senza freni nel pressare il quarterback avversario”, oppure molte cose che non ci interessano oggi ma che attraggono irrimediabilmente le squadre NFL che in aprile sceglieranno quali giovani giocatori portare a bordo e rendere professionisti, nel famoso processo del Draft.

Oltre al fisico statuario, ai record stagionali e alle prestazioni da miglior giocatore della difesa di Missouri, Michael Sam ha una particolarità: è gay. Lo ha dichiarato nel weekend a ESPN, ha detto che una cosa del genere non riusciva proprio a tenerla dentro per poi mascherarla una volta che sarebbe approdato in uno spogliatoio NFL. Che aveva il terrore diventasse una “voce”, un qualcosa su cui egli non avrebbe avuto controllo. Che voleva uscire allo scoperto ed essere trasparente.
Molti nascondono una condizione fisica scadente, ma quella viene smascherata alla Combine, cioè quella sorta di verifica delle capacità fisiche di un’atleta che si svolge a febbraio a Indianapolis. Molti collegiali non raccontano particolari della loro vita familiare, altri celano la scarsa sopportazione che hanno per uno schema o per una filosofia di gioco, perché questo potrebbe farli scegliere più tardi e farli ottenere automaticamente un ingaggio più basso e un contratto più breve.

Michael Sam ha deciso di dichiarare che è omosessuale, ma chissà quanti prima di lui lo hanno omesso.
“Houston Chronicles”, 26 dicembre 2013: esce un articolo di Brian T. Smith secondo il quale un componente degli Houston Oilers (ora Tennesse Titans) del 1993 avrebbe dichiarato che due suoi compagni di squadra erano gay, che tutti lo sapevano e che nessuno ci faceva caso. Che “una volta messo il casco e le protezioni, erano nostri fratelli; se avessi dovuto scegliere due persone con cui andare in guerra, sarebbero stati loro due”. Quindi, in NFL ci sono giocatori gay (e ci mancherebbe, visto che le rose delle squadre sono di minimo cinquanta giocatori, molti di più in pre-stagione) che erano tollerati nel 1993, figuriamoci vent’anni dopo.
Non sembra sussistere quindi quello strano teorema per cui uno sport come il football (di contatto, fisicamente provante come pochi e in cui le squadre devono essere obbligatoriamente delle famiglie per il tempo e lo sforzo che richiede la sua pratica, soprattutto a livello professionistico) non si sposi con l’omosessualità dei suoi protagonisti.

In un sondaggio presente su un sito molto ben informato che seguo da anni, gli utenti hanno pronosticato che Michael verrà scelto qualche posizione più indietro rispetto a quanto prospettato (cioè rispetto alla cinquantasettesima scelta assoluta ai San Diego Chargers che il sito stesso profetizza), e una percentuale inferiore lo colloca qualche giro dopo, circa sessanta scelte più indietro. Molti soldi e molta sicurezza contrattuale in meno.
Perché, se è vero che i gay in NFL ci sono sempre stati e tutti lo sanno, Michael, che è il primo a dichiararlo addirittura prima di essere scelto, rischia di perderci così tanto?

Vediamo le news: otto dirigenti di altrettante franchigie NFL hanno dichiarato (non pubblicamente, sia ben chiaro) che i loro spogliatoi non sono pronti ad accettare un giocatore apertamente gay. Inoltre, odierebbero vedere il circo mediatico che inevitabilmente si creerà attorno alla squadra che chiamerà il suo nome.
Cosa vuol dire questo? Dovete sapere che ogni squadra NFL ha una draft board, una lavagna su cui c’è la lista di tutti i giocatori che vorrebbero scegliere, con indicazioni su come e quando sceglierlo, se preferirgli altri ragazzi nel suo ruolo e altre informazioni. Se un giocatore non interessa, non è nemmeno sulla draft board. Domenica otto direttori sportivi di altrettante franchigie hanno preso il cancellino e annullato  il loro interesse per Michael Sam, uno dei migliori difensori della nazione. Sono in otto ad averlo detto, voci di corridoio raccolte da giornalisti abili e ben introdotti: chi scommette che quelli con il cancellino in mano sono almeno il doppio? Su trentadue squadre NFL, solo sedici sceglierebbero Michael, ecco perché gli utenti sono fiduciosi nel dire che le sue azioni sono in discesa dopo il cosiddetto “coming out”.

La vicenda del defensive end, per inciso una delle posizioni più pagate e più fondamentali nel football moderno, da Hitchcock terrà banco alla Combine, al Draft, in tutta la pre-stagione fino alle prime settimane del prossimo campionato, che inizia a settembre. La fila di giornalisti fuori da casa sua, agli allenamenti, nelle altre occasioni del fitto calendario delle matricole NFL, sarà chilometrica, i suoi guadagni irrimediabilmente limitati.
E non perché è omosessuale, ma perché l’ha detto. Perché Michael non sarebbe riuscito, come i due giocatori degli Oilers negli anni ‘90, a nascondere tutto e farsi accettare in un secondo tempo. Perchè Michael Sam, stella di Missouri, è una persone onesta con se stessa, trasparente, che magari preferisce uno zero in meno sul contratto e allenarsi più forte degli altri piuttosto che avere le spalle appesantite per tutta la carriera.

La National Football League, ma per estensione dovremmo parlare di tutto il Mondo dello sport statunitense, deve decidere: essere intellettualmente onesta e valutare Michael per il fantastico giocatore che in prospettiva è, oppure evitare l’esposizione mediatica e far scivolare il nativo del Texas in una dimensione tecnica che non gli appartiene.
Il problema è che poi magari egli diventa il miglior defensive end d’America, come i virilissimi J.J. Watt o DeMarcus Ware, e allora come la metteremo? Ci nasconderemo ancora o riusciremo a essere trasparenti?
Riprendete in mano il gessetto, cari dirigenti NFL, e scrivete di nuovo il nome “Michael Sam” sulle vostre lavagnette. Ne guadagneranno tutti, soprattutto le vostre squadre.

Dario Alfredo Michielini
Dario Alfredo Michielini
È convinto la vita sia una brutta imitazione di una bella partita di football. Telecronista, editorialista, allenatore. Vive di passioni quindi probabilmente morirà in miseria. Gioca a golf con pessimi risultati; ma d'altra parte, chi può affermare il contrario?

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