La Coppa Italia in salsa bizantina

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Torniamo su un punto, un mese dopo: a che punto è il calcio italiano nella sua espressione più totale e nazionale? Parliamo quindi della Coppa Italia, proprio mentre siamo nel mezzo dei quarti di finale. Perché la domanda da porsi rimane sempre la stessa: che formula abbiamo? È proprio la migliore possibile?

Lecito dubitarne, e lecito dubitare del contrario. Un mese fa avevamo aperto un dibattito: in una prima intervista eslusiva, Gigi Cagni si era detto favorevole alla formula attuale, sostenendo le ragioni delle grandi squadre; in una seconda, Delio Rossi invece era stato più critico, ammettendo che per chi organizza è più importante avere le grandi squadre in semifinale, piuttosto che piccole o medie, per una qustione di «forte ritorno economico ma anche di immagine». Ma è proprio sicuro?

Ne aveva parlato anche Matteo Portoghese, in un editoriale, sempre un mese fa, ricordando come da noi, a differenza che altrove, la coppa nazionale è unica (in Inghilterra, e non solo, sono due: una federale e una della lega). A chi giova una coppa fatta di poche partite, nelle quali schierare (e quindi tenere sulla corda) essenzialmente le sole seconde linee?

La risposta la sappiamo benissimo: giova a chi si può permettere seconde linee di livello assoluto, e in generale giova a chi ha tanta qualità. Perché così riesce a esprimerla (senza spremerla) in meno tempo, con meno sforzo, potendosi concentrare meglio su ciò che conta davvero: il campionato e l’eventuale coppa europea. Ah, no, scusate; l’eventuale Champions League, perché anche l’Europa League è diventata territorio per formazioni rimaneggiate.

Il guaio è che, come in ogni cosa che riguardi questo sventurato Paese, anche la formula della Coppa Italia è frutto di un miscuglio di interessi divergenti, della mancanza di un disegno complessivo, di aggiustamenti (che creano problemi ulteriori) continui. Insomma, un guazzabuglio senza anima.
Basti pensare al regolamento che impone delle teste di serie che entrano direttamente agli ottavi. Giova anche dire che la formula attuale è un parto della Lega di Serie A, che dal 2011 si è presa in carico l’organizzazione, perché prima era compito della Lega Nazionale Professionisti: insomma, una competizione di Serie B, se non fosse che la scissione della Lega, teoricamente, è avvenuta proprio per escludere le squadre del secondo campionato nazionale. Con giustificazioni che sono autentici bizantinismi.

Il punto è questo: non c’è bisogno di scimmiottare pedissequamente la formula di altre competizioni (come la FA Cup), basterebbe prendere ispirazione da quelle formule, per quanto riguarda le nostre pecche maggiori. Come il pubblico: ha senso giocare Milan-Reggina a Milano? Ha ragione Cagni quando afferma che questo garantisce quelle squadre he devono fare più sforzi durante l’anno, ma si dimentica di dire due cose: la prima è che a fronte degli sforzi hanno anche mezzi decisamente superiori; e la seconda è che a Reggio Calabria un incasso “forte” contro il Milan non avrebbe fatto proprio schifo. Quindi, primo errore: giocare su un campo per regolamento o per sorteggio (siamo arrivati a questo punto, sì) è un boomerang in termini di pubblico.

Il punto è questo: perché garantire le grandi squadre? Se sono grandi, hanno molto meno bisogno di essere garantite; men che meno per una competizione che ormai ha un senso meno che minimo (se le teste di serie entrano agli ottavi, possono vincere la competizione giocando sole cinque partite (gli ottavi in casa de jure, i quarti in partita secca, due semifinali (giusto per allungare un minimo) e la finale in partita secca (che più o meno è l’unica cosa giusta). Giusto per capirci: far giocare di meno le squadre più forti significa togliere senso ai turni preliminari, e significa anche sgravare le grandi dal compito di confermarsi tali; in altre parole, significa restringere il cerchio delle grandi alle solite note.

E poi: può dirsi “Coppa Italia” una competizione così settaria e sbilanciata su quelle là? Lo Stivale andrebbe coinvolto tutto: fino perlomeno alla Serie D. Turno secco (e sorteggio integrale), a partire dall’estate, sempre in casa della squadra più debole (fa fede il campionato in cui si milita, ed eventualmente la classifica finale dell’anno precedente), che così avrà modo di tirar su un incasso utile e di far vedere il proprio tifo a latitudini altrimenti impensabili. Pensiamo alle tante favole degli ultimi anni: avevamo parlato del Quevilly solo pochi mesi fa. Da noi sarebbe pressochè impossibile.

Bastano soli altri due correttivi per ottenere una formula decorosa, se non proprio decente: avere un’idea innovativa per la fase finale, e rendere il premio davvero appetibile. Un’idea (suggerita dal Direttore Alessio Milone) potrebbe essere quella di studiare una formula simile alle varie Final8: tutto compresso in pochi giorni, partite secche a eliminazione diretta. Controindicazioni: una Final8 (pensiamo alla pallacanestro) ha successo perché dura al massimo 4 giorni, e tutte le partite si svolgono nella medesima arena: cosa davvero difficile da sostenere, calcisticamente parlando; e poi, se invece spalmassimo le partite su otto giorni consecutivi, comincerebbero le lamentele di chi gioca per ultimo (come succede per le finaliste delle grandi competizioni internazionali: chi ha fatto la semifinale il giorno dopo, inevitabilmente, se ne lamenta).

Ma tutto questo potrebbe passare in secondo piano se si decidesse davvero di alzare la posta in palio, per mettere un premio appetitoso per chiunque. Pensiamoci bene: l’Udinese di Zaccheroni arrivò terza e non finì in Champions League (e nessuno ebbe niente da ridire). Certo, se avessimo ancora i quattro ingressi sarebbe meglio; ma riservare il terzo posto in Champions League alla vincitrice della Coppa Italia (o alla finalista, in caso la vincitrice sia arrivata tra le prime due in campionato; o alla terza in campionato, qualora la finale di coppa fosse tra le prime due classificate) costringerebbe ogni allenatore a non risparmiare le energie, a non inventarsi alchimie esasperate. E soprattutto restituirebbe blasone a una competizione mai così poco appassionante e incerta.

Pietro Luigi Borgia
Pietro Luigi Borgia
Cofondatore e vicedirettore, editorialista, nozionista, italianista, esperantista, europeista, relativista, intimista, illuminista, neolaburista, antirazzista, salutista – e, se volete, allungate voi la lista.

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