#dallaprimaallasesta – La Dakar è ancora del Leone. Sainz torna sul trono a 55 anni

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Dalla prima alla sesta. Sei cambi di rapporto, sei velocità diverse, sei protagonisti e sei chiavi di lettura.

1) Sainz. Non si può non cominciare da lui, da chi ha vinto, indipendentemente dal fatto che quella di quest’anno, mai come altre volte, è stata una Dakar ad eliminazione continua. Lo scorso anno, causa incidente, quella di Carlos Sainz fu l’unica Peugeot 3008 DKR assente sul podio finale, quest’anno la rivincita è arrivata puntuale, sofferta ma con uno slancio di emotività difficile da descrivere. Cinquantasei anni il prossimo Aprile, seconda Dakar in bacheca dopo altrettanti campionati mondiali rally conquistati ad inizio anni ’90. Una gara lucida, analizzata in ogni dettaglio e regolare come nessuno. Ha spinto quando serviva, con due prove speciali vinte (6 e 7), ma anche amministrato quando non bisognava correre rischi. Il talento, quello vero, non conosce età. Bravo Carlos. 

2) Peugeot. Il ritorno, nel 2016, per tornare padroni del rally raid più competitivo al mondo. L’arrivederci, perché in questi casi è sempre dannatamente superficiale parlare di addii, dopo la terza edizione consecutiva messa in bacheca. Una supremazia tecnica, organizzativa ed anche psicologica quella che ha portato Peterhansel – Cottret nei primi due anni e Sainz-Cruz in questo 2018 primi al traguardo finale. Il tutto sotto l’armoniosa regia di Bruno Famin, direttore di un’orchestra impeccabile che ha trasformato la 2008DKR, la 3008DKR ed infine la 3008DKR Maxi in strumenti cosi perfetti ed efficaci da non conoscere ostacoli. Da domani l’attualità sarà Rallycross, compreso il prossimo avvento della declinazione elettrica, e chissà quant’altro. Ma questi tre anni di Dakar sono stati accademia, destinati per logica e necessità comune ad un posto nella storia.

3) Toyota. Tutto sommato, bene. Per All-Attiyah un prologo da primo della classe, seguito dai soliti, decisivi, passaggi a vuoto nella settimana inaugurale. Ma anche un bottino di quattro speciali vinte (nessuno come lui ndr) ed un secondo posto finale contenuto a 43 minuti dalla coppia Sainz-Cruz. Per DeVilliers il percorso, diametralmente, inverso: un inizio difficile, di quelli in cui serve innanzitutto tenere i nervi saldi, ed un finale in crescendo incentivato, perché no, anche da aiuti involontari ed inaspettati, leggi un Peterhansel insolitamente sommerso dai problemi tra le dune sudamericane. Alla fine dei giochi, due Hilux sul podio e la convinzione che senza Peugeot, forse, la parte del Leone (in tutti sensi) toccherà a loro.     

4) Stephane&Sebastien. Alzi la mano chi alla vigilia dell’edizione 2018 non pensava, pronosticava e forse anche sognava un terzo acuto consecutivo a firma Peugeot con colui che, Stephane Peterhansel, più di ogni altro merita l’appellativo di Monsieur Dakar. Ed invece, il tredici volte re del deserto è stato costretto ad applaudire altri ai piedi del podio di Cordoba. In testa dopo le prime sei speciali, il disastro alla settima, giorni all’inseguimento e infine i problemi allo sterzo nella tredicesima che l’hanno costretto ad alzar bandiera bianca. Prima di lui, molto prima, alla tappa numero cinque fuori dai giochi era finito Sebastien Loeb, polverizzando dopo una caduta in un fosso e l’infortunio occorso al suo fidato Daniel Elena i sogni di un successo in terra sudamericana. Nulla che non si riuscirà a superare, specie per chi, come loro, non trova più spazio neanche per uno medagliuccia sulla bacheca di casa. Ma la delusione, almeno in queste ore, lasciatela sbollire.

5) Walkner. Quale modo migliore per un team austriaco di regalarsi il successo numero 17, tra le moto e nella corsa più affascinante al mondo, se non con un pilota nato 31 anni fa in un piccolo sobborgo ad una manciata di kilometri di Salisburgo? Matthias Walkner ha studiato, dal 2015 ad oggi, collezionando ritiri, i primi due anni, e un secondo posto, nella passata edizione, prima di mettere in fila tutti, nel 2018, sotto il traguardo di Cordoba. Anche nel suo caso, per logica, impossibile non parlare di chi, vedi Sam Sunderland, la sua Dakar da campione in carica è stato costretto ad abbandonarla prima del termine e quando era in testa alla classifica. Ciò nonostante, tutti in piedi ad applaudire il buon Matthias, figlio d’arte (il padre è Heinz Kinigadner, iridato di motorcross) dal carattere genuino e capace di ritagliarsi il suo momento, e che momento, da raccontare alle generazioni che verranno. 


6) Storie e l’Italia. Se la storia e le storie appartengono quasi sempre a chi vince, questa Dakar verrà ricordata soprattutto per la seconda volta di un campione senza età come Sainz, per la prima di Walkner, per l’ultima di Peugeot, per la delusione di Peterhansel e i ritiri di Loeb e Sunderland. Ma volendo (e vogliamo) cercare altro, permetteteci di spendere due battute sul quinto posto di Jakub Przygonski e il settimo di Martin Prokob, uno polacco e l’altro ceco, entrambi da applaudire per svariate ragioni. Applausi anche per Kevin Benavides, a soli sedici minuti da Walkner e da un trionfo davanti al proprio pubblico, unica Honda in un dominio KTM tra le due ruote completato da Price in terza posizione e il francese Meo subito dietro. Bene, nei limiti, anche la truppa italiana, con Jacopo Cerruti, il migliore, a chiudere in ventesima posizione, Maurizio Gerini, il debuttante, subito dietro alla casella ventidue ed Alessandro Botturi, portacolori d’ufficio, a provarci fino all’ultimo prima di arrendersi a tanta sfortuna ed un sasso nascosto tra la sabbia, sul quale è caduto giocandosi una costola. Si crescerà, e il tempo non manca, per ora accontentiamoci.

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