Le due Coree sotto un’unica bandiera: tra speranze e diffidenza, la penisola si riunisce nella tregua olimpica

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Nella cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali di PyeongChang, le due Coree sfileranno sotto un’unica bandiera. Era uno degli accordi più attesi del momento, in un periodo di crescenti tensioni internazionali tra le continue minacce nucleari del dittatore nordcoreano Kim Jong-un e le risposte (spesso tutt’altro che bilanciate) delle grande potenze mondiali e, alla fine, proprio in giornata le parti hanno trovato l’intesa a Panmunjom. Il piccolo villaggio agricolo posto a cavallo del 38° parallelo che divide i due Stati in cui il 27 giugno 1953 venne firmato l’armistizio che poneva fine alla sanguinosa Guerra di Corea e che da allora è diventato la sede dell’Area di sicurezza congiunta: una zona demilitarizzata finalizzata a uso diplomatico e diventata il fondamentale punto di contatto tra i due Paesi rivali da decenni.

Nell’incontro di oggi, le due Coree hanno definito tutti i dettagli dell’accordo relativo ai numeri e alla composizione della delegazione del Nord che raggiungerà la sede dei Giochi attraversando il territorio del Sud, in particolare passando per la zona industriale a sviluppo congiunto di Kaesong. Dal numero di atleti (in realtà soltanto due: la coppia di pattinaggio artistico Ryom Tae-ok e Kim Ju-sik), anche paralimpici, a quello dei tifosi (poco più di 200) e dell’orchestra che si esibirà a Seul e Gangneung, dai 30 atleti che comporranno il team dimostrativo di taekwondo alle selezionatissime cheerleader, fino alla previsione di un evento culturale alla località turistica nordcoreana Kumgang e una sessione congiunta di allenamento degli atleti al Masikryong Ski Resort. Ma, soprattutto, la decisione di iscrivere un’unica squadra di hockey femminile alla competizione.

Una scelta che, come riportato da diversi quotidiani, non è stata assolutamente apprezzata dal commissario tecnico della nazionale sudcoreana Sarah Murray, ora costretta a far confluire nella propria rosa giocatrici che, a sua detta, abbasserebbero la qualità della sua precedente squadra. I risultati le danno ragione, certo, visto che nella sfida dei campionati del mondo dello scorso aprile le atlete del Sud hanno trionfato con un secco 3-0 sulle colleghe del Nord. Ma, per buona pace dell’allenatrice americana, l’esigenza di un accordo in nome della distensione non poteva che far passare in secondo piano l’importanza dei risultati puramente sportivi e così ora, tra le 23 convocate, sarà necessario inserire anche elementi fino a ieri considerati rivali.

E così, mentre a Vancouver si svolgeva il vertice tra Stati Uniti, Canada e 18 paesi alleati che ha confermato l’impegno degli Stati a sostenere il dialogo diplomatico intercoreano e al contemporaneo mantenimento delle sanzioni ONU verso Pyongyang, in terra asiatica si è arrivati a uno storico accordo che sembra poter allentare almeno per il momento il braccio di ferro tra le parti. Sembra, appunto, perché le reali intenzioni di Kim Jong-un restano ancora sconosciute e per molti (in primis, il ministro degli Esteri giapponese Taro Kono) la disponibilità mostrata dai Nordcoreani nei colloqui non sarebbe altro che una strategia per distrarre l’attenzione dal programma di sperimentazione nucleare in continuo avanzamento. Possibile, perché il leader nordcoreano ha spesso dimostrato di essere imprevedibile, alzando i toni di una contesa dalla portata potenzialmente drammatica. Ma l’importante gesto simbolico delle due Coree resta un gran passo verso quel desiderio da sempre coltivato, con intenzioni a volte pacifiche e altre dispotiche, dai leader dei due stati: creare nuovamente un’unica Corea unita.

Le Olimpiadi, insomma, finiscono così per riprendere lo spirito delle origini, quello che nell’Antica Grecia portava tutti cittadini delle πόλεις (città-stato) ad abbandonare le armi e le dispute pubbliche e private che rischiassero di compromettere il corretto svolgimento dei Giochi. Una tregua momentanea, diretta a permettere agli atleti e agli spettatori di raggiungere Olimpia per poter dar vita al grande evento dell’epoca, ma che dal 1992 lo stesso Comitato Olimpico Internazionale ha chiesto alla comunità internazionale di rispettare nel periodo dei Giochi: al punto che, nella “Dichiarazione del Millennio”, adottata da 150 Stati, esiste oggi un apposito paragrafo dedicato proprio alla tregua olimpica. E l’impegno della comunità internazionale a rispettarla diventa ancora più forte oggi, proprio nel Sud-Est asiatico, le cui vicende hanno aperto nuovamente la paura di una guerra nucleare devastante per la terra.

L’accordo dovrà ora passare al vaglio del Comitato Olimpico Internazionale, che si riunirà sabato a Losanna per decidere sulle modalità di partecipazione, fuori dal limite regolare delle iscrizioni, degli atleti e dei funzionari nordcoreani. Non fare un’eccezione ora sarebbe un gesto di poco buon senso. Ma i dirigenti del CIO dovranno anche discutere quegli aspetti normalmente di dettaglio, ma che in questo contesto assumono un’importanza totalmente diversa: le divise da utilizzare, l’inno e, soprattutto, la bandiera scelta. Ovvero, per decidere sotto quale simbolo sfileranno per la prima volta uniti gli atleti delle due Coree il prossimo 9 febbraio. Nella speranza che questa tregua “sportiva” non diventi presto un gesto puramente simbolico senza alcun valore reale in un conflitto che ha segnato in profondità la storia contemporanea.

Francesco Moria
Francesco Moria
Nato a Monza nel '95, ha tre grandi passioni: Mark Knopfler, la letteratura e il calcio inglese. Sogna di diventare giornalista d'inchiesta, andando a studiare il complesso rapporto tra calcio e politica.

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