Zidane y alla marquer: un tecnico, dopo i (troppi) santoni

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Il calcio, e lo sport in generale, ben si presta al massiccio impiego del senno di poi: col risultato acquisito è in effetti abbastanza facile dispiegare articolate riflessioni per dimostrare quanto gli eventi accaduti si poggino su spiegazioni ragionevolissime. «Cio che è reale è razionale» sentenziava un tempo un filosofo germanico, benché il ragionamento non s’arrestasse a quel, solo in apparenza banale, principio.

Il Real Madrid ha vinto la coppa numero 12, terzo trionfo in quattro anni, secondo consecutivo, dati effettivamente impressionanti, colti, per altro, in immediata successione a quello che sarebbe dovuto essere un momento tra i più controversi della storia blanca, corrisposto all’apogeo del Barça tra Guardiola e Luis Enrique nonché al ritorno sui massimi livelli dei rivali cittadini. Dinanzi a consimili rovesci, la reazione merengue è stata fattivamente impressionante: ne ha pagato salatissimo pegno la squadra italiana che più d’ogni altra, dai discussi fasti del triplete nerazzurro di sette anni or sono, è parsa in grado di riportare con pieno merito il tricolore sul tetto dell’Europa calcistica (della Nazionale prandelliana vicecampione continentale nessuno sembra serbar memoria).

Sugli accadimenti di Cardiff si son già simbolicamente versati fiumi d’inchiostro: primo tempo giocato alla pari, anzi meglio, dalla banda di Allegri, schierata “alla vecchia maniera” per quanto concerne la retroguardia, e una ripresa d’autentico incubo per qualsiasi sostenitore bianconero. Al di là degli sfottò (da sempre porzione saliente nella gamma passionale del tifo pallonaro: bambini, ricordiamo i Grazie Magath vergati su muri e asfalti), al di là della cocente delusione per l’ennesimo atto finale cannato (mettere in rapporto le recenti sconfitte con quelle di decenni addietro ci pare, francamente, insensato, a meno che Bonucci e soci non abbiano frequentato corsi motivazionali tenuti da Peruzzi, Porrini, Tardelli e Cuccureddu), un paio di elementi ci paiono chiari, quasi indiscutibili, benché sinora non troppo enfatizzati da una stampa per cui la vittoria parrebbe essere sempre l’unico risultato possibile.

Il Real Madrid ha vinto perché è, semplicemente, stata la squadra più forte e, soprattutto, più efficace. Ridicoli, francamente, i discorsi a rimarcare i favori ricevuti nei turni precedenti, anche perché difficile sarebbe individuare chi, tra le grandi del calcio contemporaneo, possa ambire con ragione l’accesso a tale pulpito accusatorio. La Champions è senza ombra di dubbio competizione difficilissima, nella quale contano molto sia i dettagli sia, come sempre nel pallone, una serie di circostanze fortuite, senza le quali sollevare un trofeo rischia di diventare utopico. Ebbene, mettere in bacheca un tris di coppe nell’arco quasi minimo di quattro stagioni è qualcosa di incredibile, anche perché, se è pur vero che in alcune circostanze il ruolo della Dea Bendata è stato non proprio secondario (citiamo il Chelsea di Roberto Di Matteo, campione 2012, per non inimicarci troppo altri tifosi italiani: chi vuol capire, capisca), una simile serie di affermazioni esclude per ovvie motivazioni statistiche il solo intervento di madama buena suerte.

E se è vero che il Real è squadra di campioni, club abituato, sin dagli albori della sua storia continentale, a collezionar figurine mettendo in campo il meglio del calcio europeo e mondiale, è altrettanto vero che Zinedine Zidane, sopraggiunto quasi per caso (così era stato salutato da gran parte della stampa iberica e non) sulla panchina dei blancos, s’è via via rivelato un gran bell’allenatore, e la presente stagione sta qui a dimostrarlo.

Che allenare un club come il Real sia facilissimo è, a esser buoni, insinuazione tra il caprino e l’idiota: a smentirla, basterebbe l’elenco degli illustri tecnici giubilati dalle parti della Ciudad, non ultimo Rafa Benítez. Certo, le qualità richieste nel gestire spogliatoi pieni di campioni (con relativi e debordanti ego) sono ben differenti da quelle necessarie a insegnare calcio in club di medio o basso calibro; non a caso, molti guru del pallone approdati in società di prima grandezza dopo meritevolissima gavetta sono usciti spesso ridimensionati dal contatto con livelli e realtà sconosciuti in precedenza. Si può persino dire che allenare in un certo tipo di club sia, addirittura,mestiere diverso: ebbene, questo mestiere è stato appreso benissimo dal buon vecchio Zizou, e il secondo tempo della finale gallese rappresenta la ciliegina d’una torta in cottura da almeno un anno.

Rotazione oculatissima dell’organico per non creare (troppi) malumori nella rosa, formazioni costruite sui principi di compattezza, difesa a quattro con l’unica variazione tra l’impiego d’un tridente puro e inserimento d’un trequartista in alternativa a una punta, questi i punti forti d’una gestione esemplare. Nel mezzo, la promozione a pedina tattica irrinunciabile d’un ruvidaccio quale Casemiro (investimento che a Cardiff ha ripagato con gli interessi), potendo così permettersi in mediana la metronomica razionalità di Kroos unita al talento purissimo di Modrić. In avanti, a risolvere le questioni ci pensino il robot portoghese e i relativi compagni di ventura. Sembra tutto facile, dopo due coppe e una Liga in saccoccia, ma non lo è affatto, e quanto occorso in terra britannica dovrebbe dare ancor più lustro ai madridisti, autori tutti di un’autentica impresa.

Se ritornassimo con la mente a venerdì, a sabato pomeriggio, ai minuti prima del rientro dagli spogliatoi, dovremmo ammettere che la convinzione generale era d’una Juve che avrebbe potuto vincere, e con merito, la coppa dalle grandi orecchie. Una Juve la cui grande caratteristica è stata, negli ultimi mesi, di riuscire a neutralizzare, quasi immobilizzare, a schienare qualsiasi avversaria, anche la più blasonata. Merito d’un allenatore abilissimo scacchista, eccellente stratega in gioco, capace d’allestire una squadra apparsa (quasi) insuperabile, a meno che non fosse lei stessa (come in campionato) ad alzar il piede dall’acceleratore per amministrare le forze. Imbrigliare una simile Juventus, finendo per imporre il proprio ritmo e mettendo in ginocchio chi aveva sconfitto gli odiati blaugrana è stato il capolavoro tattico del tecnico francoalgerino, specialmente quando, ben prima della censurabile simulazione di Sergio Ramos (troppe volte, negli ultimi giorni, rivolgiamo il pensiero a Paolo Maldini alla stregua d’un nume tutelare), i suoi, a risultato quasi acquisito, continuavano a pasturar calcio come se nulla fosse, facendo vedere i sorci verdi a Buffon (una volta per tutte speriamo sia sventata l’ipotesi d’un Pallone d’Oro che, in prospettiva storica, sarebbe stato comunque più giustificabile di quello a Cannavaro) e compagni.

Rari, nella storia del pallone di cuoio, i fuoriclasse assoluti in grado di essere allenatori di valore analogo a quello dimostrato in campo. Messi alle strette, diremmo, senz’altro, Johan Cruijff, con qualche perplessità potremmo forse balbettare il nome di Franz Beckenbauer, ma difficilmente riusciremmo a individuare ulteriori casi di simile livello. Pensiamo ad AncelottiGuardiola, ma pure a Capello, tecnici supremi, grandissimi calciatori, ma non esattamente fuoriclasse ai livelli dei propri compagni più forti. Senza voler esaltare troppo il timido marsigliese che tanto ci fece sognare ai tempi in cui giocava, siamo propensi a credere, senza bisogno di proclami, autopromozione da guru e paccottiglia varia, di trovarci dinanzi davvero a un grande tecnico, cui vorremmo rivolgere, su tutte, una sola domanda: se avesse in rosa Zidane (Zizou medesimo, non il figlio peraltro già schierato), dove lo collocherebbe? Da parte nostra, abbiamo qualche ipotesi, ma nessuna certezza. Vive Zizou.

Igor Vazzaz
Igor Vazzazhttp://www.losguardodiarlecchino.it/
Viareggino di origine friulana, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Collabora con varie testate, cartacee e web. Talvolta, pubblica libri e dischi. Tifa Udinese. Il suo cane è pazzo.

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