La Roma è ancora una grande squadra?

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Da diversi anni a questa parte, uno spettro si aggira per l’Italia.

È il preliminare di Champions League, che miete una vittima dopo l’altra e riduce a due club il contingente del Bel Paese nella cosiddetta Europa che conta.

Uscire sconfitti dai playoff per l’accesso alla fase a gironi non sarebbe di per sé un dramma; il confronto tecnico è spesso impari (vedi Arsenal-Udinese), altre volte alla pari ma la ruota gira male, specialmente dopo la riforma e la separazione dei tabelloni tra “playoff campioni” e “piazzate”. Un tempo poteva capitare più spesso di affrontare la squadra campione di Repubblica Ceca o Polonia, ora contro le terze o quarte di Premier League o Bundesliga è obiettivamente più difficile.

Se allora occorre fare meno drammi per un’eliminazione in agosto – ma davvero possiamo parlare di “eliminazione”, quando tutto è appeso a un filo e si sa da maggio? – il problema è che le squadre coinvolte vivono in funzione di questo doppio confronto.

Perfettamente comprensibile che i tifosi vi proiettino sogni, ansie e paure, meno tenère in naftalina addetti ai lavori e uomini mercato in attesa dell’esito di tale sfida. Anche perché è un paradosso: decidi chi o cosa comprare in base all’esito di una sfida per la quale in realtà dovresti attrezzarti prima, come fanno gli altri e come si faceva un tempo.

Si dirà che i calciatori faticano a firmare senza la certezza della Champions League e in parte sarà vero, ma tu come società dovresti proporre loro qualcosa di alternativo, argomenti e progetti in grado di attrarli anche nel peggiore scenario possibile. Offrendo loro la possibilità di brillare in agosto e contribuire, in prima persona, al buon esito del playoff.

Di questa inerzia estiva hanno peccato, recentemente, Napoli e Lazio. Nel primo caso, una squadra a parole vogliosa di contendere alla Juventus lo scudetto andò poi a naufragare contro il forte ma non imbattibile Athletic, mentre i biancocelesti 12 mesi fa uscirono mortificati – pur con l’alibi delle assenze – dalla sfida al sempre sottovalutato Bayer Leverkusen. Quarta forza di un campionato che poco guardiano ma spesso giudichiamo, club dalle fortune continentali più brillanti di quelle recenti di tante nostre grandi: Roma in primis.

Eccoci, la Roma. Perché quest’anno i cugini hanno ceduto ai giallorossi l’onore di giocarsi il playoff. Non sappiamo ancora contro chi – ma avremmo gradito una copertura televisiva seria anche dei primi preliminari – ma la certezza è che in naftalina ci s’è messo pure lo staff del presidente James Pallotta.

Altro che modernità, proprietà straniera, innovazione: mercato ai minimi termini, si vendono i pezzi da novanta e poi solo poi e magari eventualmente si compra. Si va avanti sottotraccia, affidandosi ai soli miracoli di Luciano Spalletti. Che è grande tecnico e in pochi mesi rivoltò la Roma come un calzino, intendiamoci, ma ancora taumaturgo non è: se la rosa ha palesato difetti e mancanze nel 2015-2016, non è con l’immaginazione e l’improvvisazione che le cose cambieranno.

Totti ha rinnovato, Mario Rui s’è infortunato, gli acquisti importanti (?) erano stati pianificati già da prima del ritorno dell’uomo di Certaldo; Pjanić, soprattutto, se ne è andato al nemico.

Avversario nella lotta scudetto, ma solo sulla carta: no, la Roma non è più una grande squadra.

E non lo sarà almeno finché non farà mercato prima del preliminare di Champions League.

Troppo facile, poi, piangere sul latte versato.

Matteo Portoghese
Matteo Portoghese
Sardo classe 1987, ama il rugby, il calcio e i supplementari punto a punto. Già redattore di Isolabasket.it e della rivista cagliaritana Vulcano, si è laureato in Lettere con una tesi su Woody Allen.

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