La partita di… Pietro Luigi Borgia

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Non ero mai stato dentro uno stadio prima di quel giorno. Quattordici agosto 1996: Arezzo-Napoli, con i toscani in C2 e i campani in A. Ultimi veri vagiti dell’èra-Ferlaino, che quell’estate ha fatto acquisti a borsello quasi chiuso, portando però a casa una speranza chiamata Beto — per gli amici Joubert Araújo Martins. Non un grande affare: il giocatore è degno, sì, ma alle pendici del Vesuvio non sboccerà; e l’Ingegnere dovrà mangiarsi le mani, perché per prendere lui ha lasciato perdere il possibile ingaggio di un promettente sedicenne: Ronaldo de Assis Moreira, meglio noto come Ronaldinho. Vero che spesso e volentieri sarà incisivo solo quando sorrida; ma economicamente sarebbe stato un vero affare, e dubito che al San Paolo non si sarebbero divertiti.

Ma in questo caso parlo di me, e di mio padre: stadio comunale di Arezzo, squadra in C2 ma allenata da un certo Serse Cosmi (in campo, in maglia amaranto, anche Di Loreto). Due posti di tribuna, come si conviene a un esordio: con un certo distacco, e un equilibrio spontaneo. Insomma, la calura estiva non fa per noi. E neanche per i giocatori ospiti: guidati in panca da Gigi Simoni (quello che poco più di due anni dopo sarebbe stato esonerato dall’Inter a breve distanza da due vittorie, tra cui quella per 3-1 contro il Real Madrid), i napoletani appaiono appesantiti dai carichi di lavoro, e soprattutto svogliati: ogni tanto si svegliano, manovrano il pallone, scorribanda su una fascia, passaggio filtrante, tiro e rete.

Da qualche anno portavo già gli occhiali. Che poi ci pensi e dici: però ci vedevo davvero meglio di oggi. E poi ripensi a Beto, che allora era un promettente ventunenne, e oggi è ormai fermo da qualche anno. Poco giramondo, in realtà: oltre al Napoli, due puntate in Giappone, e il tempo di diventare però uno degli idoli del Flamengo (con cui ha disputato alcune stagioni a cavallo del Duemila), portando a casa tre titoli carioca (e poi altri due nel 2002 col Fluminense e nel 2003 con il Vasco, che da allora non l’ha più vinto). Beto e la miopia, Beto e la memoria: né io né tu, papà, ci siamo dimenticati di quella partita, anche se sicuramente non hai la più pallida idea di chi io stia parlando. Che poi, se ci pensi bene, è una delle poche cose che mi ricordo ancora della mia infanzia: il resto l’ho rimosso. Se ricordo ancora la prima volta in uno stadio, evidentemente, ci sarà un motivo — o più di uno.

Non ti ho mai contagiato, questo no — e non sarebbe mai stato possibile. Come ho detto tante volte, ognuno è fatto a suo modo: tu sei stato uno schermidore, io al massimo sono stato un (aspirante) mezzofondista; tu hai scelto di analizzare la comunicazione visiva tramite gli emblemi dal Medioevo all’età moderna, io mi accontento di provare a evidenziare ogni settimana la funzione sociale dello sport.

Prometto, papà, prometto: non ti costringerò più a entrare in uno stadio. E neanche in un Palasport: quando sono più vicino ai trenta che ai venti, posso serenamente andarci da solo. Sono passati quasi diciassette anni: tu sei sempre metodico, io sono sempre pignolo, siamo cresciuti insieme. E ora, quella mano che mi accompagnava per strada, la puoi vedere al contrario: sono io a porgertela, quando vuoi, anche se non è più «la manina» che era un tempo.

Ma nessuno mi toglierà l’emozione di quella prima volta insieme allo stadio, e spero che anche tu ti ricordi come me di quei 22 che sudavano in campo (undici per davvero, gli altri maramaldeggiando), di quella tribuna piena di dialetti (e di lupini, o fusaje che dir si voglia), e del nostro completo jeans-più-polo-blu, così insolito per un padre sempre traje y corbata, e che per me faceva tanto giorno di festa. Una festa in pubblico, a prescindere dal risultato, perché l’unico risultato che conta è che eravamo insieme, in due, a cercare di capirci qualcosa.

Quante porte mi ha aperto, quella partita. Mi ha fatto fare un salto di qualità: prima ero soltanto uno che conosceva a memoria l’almanacco Panini (cosa che mi sarebbe tornata più utile in seguito, quando cominciai a scrivere a qualche settimanale) e sapeva ruoli e informazioni di chiunque, ma solo su carta; dopo, finalmente, avevo avuto accesso ai giocatori, agli schemi, al profumo del prato. Un altro mondo — un altro mondo anche rispetto a oggi, quando la televisione voyeuristicamente porta qualsiasi azione, ripetuta allo sfinimento, nei nostri salotti e nei nostri tinelli.
Per qualche anno abbiamo continuato ad andare in giro così: jeans e polo blu a maniche corte. Io a vedere la partita, tu a volte capace persino di addormentarti — ma sempre al mio fianco.

Dubito che quella partita sia rimasta nella memoria dei tifosi aretini (superata sicuramente dagli anni in Serie B) e tantomeno dei napoletani, di per sé abituati a ben altri palcoscenici. Ma è rimasta per me.

Una partita tra due società che, peraltro, non esistono più (il nuovo Napoli nasce nel 2004, il nuovo Arezzo è ancora più recente: 2010). Loro sono sparite, noi ci siamo ancora. E continuiamo a camminare insieme. Perché certe cose passano, ma i ricordi di emozioni vissute con qualcuno al fianco sono per sempre.

Pietro Luigi Borgia
Pietro Luigi Borgia
Cofondatore e vicedirettore, editorialista, nozionista, italianista, esperantista, europeista, relativista, intimista, illuminista, neolaburista, antirazzista, salutista – e, se volete, allungate voi la lista.

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