Potremmo chiamarlo il primo miracolo di papa Francesco: finalmente, dopo mesi, per qualche ora non si parla più soltanto di sondaggi, elezioni, coalizioni, politica, crisi finanziaria, rating, spread e giustizia a orologeria. Piazza pulita di tutto almeno per un po’. Anche a ricordarci che c’è dell’altro, nella vita.
Certo, non tutti si rivelano all’altezza, anzi. C’è chi la butta in politica (chi vede in Bergoglio, a torto, un rivoluzionario: difficile pretenderlo da un Papa che pure, lo vedremo, magari avrà un approccio differente; ma di certo non potrà transigere su determinati argomenti), ieri abbiamo persino letto un articolo intitolato L’errore di crederlo di sinistra: robe da poveri in spirito, direi.
Come non di buon gusto è stata la scelta del Mattino di Napoli di intervistare Diego Armando Maradona: di argentini in Italia ne abbiamo tanti, e tutto sommato possiamo dirci soddisfatti che certe opinioni non siano state richieste anche a Belén o a Iliana Calabró (candidata all’esterno nelle recenti elezioni politiche: risultato negativo). Per tacere di decine di calciatori che magari, prima di entrare in campo, si fanno anche il segno della croce. Insomma, ci è andata bene.
Comunque sia, per chiudere la parentesi: Bergoglio adesso è un uomo al comando: sperando che non sia troppo solo. È anche tifoso del San Lorenzo, molto piacere. Non credo che sarà questo a fare la differenza per un papato che, come ha dimostrato Benedetto XVI, è adeguato ai tempi: precario, come tutto nella vita al giorno d’oggi. L’unico a non essere precario, a oggi, è ancora “lui”: si è sempre autoconfermato malgrado certi suoi comportamenti ne certifichino i propri errori. Si dirà: ma infatti è così che crede di rimediare.
“Lui”, l’innominato, è Zamparini; i precari (lautamente pagati) sono i suoi allenatori: quelli che all’inizio di ogni stagione si dicono stregati dal progetto palermitano (e prima veneziano), e attorno a Natale si ritrovano pagati per far nulla. Lungo l’elenco degli allenatori di Mister Emmezeta: tra i nomi vi figurano Daniele Arrigoni, Silvio Baldini, Francesco Guidolin (uno dei più durevoli, ma a più riprese), Gigi Delneri, Stefano Colantuono, Davide Ballardini, Walter Zenga, Delio Rossi, Serse Cosmi — e questi nomi (non tutti da buttare via, peraltro) solo per rimanere nel decennio palermitano, tacendo anche il numero di direttori sportivi cambiati. Perché il problema è qui: ci si affida a qualcuno per fare la squadra, gli si dà carta e penna e poi il colpo di mano per riprendersele. Con risultati finali che somigliano pericolosamente a scarabocchi.
E la cosa che stona di più è notare quanti di questi nomi venissero di volta in volta da ottime stagioni alla guida di altre squadre. Prendo gli allenatori come esempio: qualcuno ha tradito le promesse, altri no; ma tutti a Palermo hanno rischiato di venire bruciati. Ripenso anche a un uomo solitamente taciturno come Guidolin che, a Palermo, perse completamente la brocca contro la Fiorentina, nel 2007 o giù di lì; mi sembra l’indice del fatto che il clima zampariniano non è il migliore possibile (eufemismo).
Lo dico: è un modo di fare che rientra perfettamente nello stereotipo dell’italiano fumantino. Trovare il capro espiatorio e fingersi puri, grossomodo: è sempre così — ed è sempre così ogni volta che qualcuno ha la sventura di inciampare, cadere in disgrazia. (E quando cadi, rimani solo: nessuno salta sul carro del perdente.) Quell’idea che cambiare allenatore possa sopperire a tutte le altre carenze.
Riprendiamo in mano l’edizione 2007, quella del Guidolin furioso: il Palermo lottava per un posto in Champions, c’erano Zaccardo e Barzagli (freschi campioni del Mondo), Fábio Simplício, Bresciano, e come terza punta scalpitava un certo Cavani. Giusto per precisare: negli anni precedenti e in quelli seguenti, nei rosanero hanno militato giocatori del calibro di Corini, Toni, Grosso, Nocerino, Pastore, Balzaretti, Sirigu, Viviano, Silvestre; e i vari Kjær o Amauri hanno lasciato bei ricordi (forse i migliori della loro carriera) sull’isola. Segno che si può fare qualcosa di buono, se solo si fa in tempo.
Non mi interessa prendere la posizione di Gasperini, di Malesani o di Sannino (per citare solo i nomi di questa stagione). In un certo senso, peraltro, non provo grande empatia per la loro condizione: nel senso che, se vai ad allenare certe squadre, sai bene a quale destino vai incontro, e chi è causa del suo mal, eccetera eccetera. Trovo però molto più notevole che, in tutto ciò, ci sia ancora chi non si rende conto: il problema può essere nella pietanza (la rosa) o nel mestolo (l’allenatore); ma in entrambi i casi il primo a sbagliare è stato il manico (il proprietario, ossia quello che scuce).
Dicono che ci sia la disoccupazione in aumento, e la crisi a influenzare ogni nostra mossa, e che il denaro sia diventato il nuovo Dio (Francesco, aiutaci tu). Quello che ancora non ho capito, sinceramente, è se gli allenatori esonerati da Zamparini possano rientrare a pieno titolo nella categoria dei posti di lavoro creati. E se lui ci prova gusto.