Non gioco più, me ne vado

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Un bambino viziato: non ho trovato parole migliori per descrivere il comportamento di un giocatore che, sostituito a pochi minuti dalla fine, ha deciso di organizzare un teatrino simile. Givanildo Vieira de Souza, in arte Hulk, è stato pagato 55 milioni di euro dallo Zenit San Pietroburgo, un club russo che sta faticosamente cercando di far combaciare i pezzi del proprio puzzle acquistati in estate, dopo aver sborsato più di 100 milioni. Episodi come questi servono soltanto a destabilizzare un ambiente già di per sé fragile, colmo di prime donne che non vedono l’ora di mettersi a confronto. Appunto, come i bambini.

Il calciatore brasiliano non è il primo e non sarà l’ultimo a sfuriate del genere, che mancano di rispetto a tutto l’ambiente: dal presidente, che ha speso moltissimi soldi per portarlo in Russia, magari sperando in prestazioni migliori rispetto a quella di martedì sera, all’allenatore, tale Luciano Spalletti, non proprio uno sprovveduto alle prime armi. Per non parlare dei compagni di squadra, la cui armonia viene sicuramente minata da elementi come il sopracitato brasiliano.

Ciò che fa ancora più riflettere, però, è quello accaduto nel dopo partita. La reazione in sé è grave e ingiustificata, ma si tratta comunque di sport, con giocatori che danno il 100% in campo e vorrebbero essere sempre protagonisti nel rettangolo di gioco. Una volta terminata la partita, Hulk avrebbe potuto chiedere scusa a Spalletti, riconciliando i rapporti con uno dei tecnici più bravi del pianeta e, soprattutto, dimostrando al mondo intero di avere ancora un po’ di cervello.

Hulk durante il litigio con Spalletti

Invece no, Hulk ha preferito rincarare la dose, affermando di voler risolvere al più presto la faccenda, perché in caso contrario sarebbe costretto a richiedere la cessione. Dal canto suo, Luciano Spalletti ha giustamente deciso di non farsi mettere i piedi in testa da un bambino a cui è stato rotto il giocattolino preferito, anzi, tutt’altro. L’ex tecnico giallorosso ha evidenziato come Hulk sia tutt’altro che indispensabile nel gioco della formazione russa, aggiungendo che le valige può farle quando vuole. Tanto per far capire chi è l’allenatore. Il prossimo passo è spiegare all’ex Porto cosa significa il termine ‘rispetto’, potrebbe tornargli utile in futuro, forse.

Grazie a Dio, però, nel calcio non esistono soltanto adolescenti cresciuti precocemente e, successivamente, coperti di soldi. O meglio, di certo Javier Zanetti non gioca gratis per l’Inter, ma quello a cui abbiamo assistito domenica pomeriggio racchiude in sé un mix di ammirazione e, per l’appunto, rispetto: aver avuto il privilegio di vederlo con i miei occhi, dal vivo, è per me motivo di orgoglio.

I nerazzurri stavano spingendo forte sull’acceleratore per piegare la resistenza di un ostico Palermo, ma il capitano non era in giornata. Dribbling non riusciti, passaggi sbagliati, insomma una giornata da dimenticare. Capita ai più giovani, figuriamoci a chi ha 39 primavere alle spalle e gioca sempre titolare da 4-5 anni. Quello che non accadeva le altre volte, però, era il cambio: Zanetti è stato sostituito, al suo posto Nagatomo. San Siro reagisce in maniera confusa, ma l’argentino, che prima di essere un calciatore è soprattutto un Uomo, non fa una piega. Lo 0-0, però, è un risultato negativo, quindi bisogna sbrigarsi.

Javier si toglie la fascia da capitano, corre da Cambiasso per consegnargliela e poi si dirige, sempre correndo, verso la panchina. Inutile sottolineare che, ad accompagnare il capitano, ci siano 40 mila spettatori in piedi ad applaudire senza sosta, perché Zanetti va applaudito sempre, anche quando gioca male. Una stretta di mano a Stramaccioni, più giovane di lui di ben 3 anni, e poi subito in panchina a fare il tifo per i compagni. “Un capitano, c’è solo un capitano” è il coro che la Curva Nord gli dedica, consapevole che Javier non giocherà per sempre, e non restano quindi più molte occasioni per ringraziarlo concretamente.

Chissà che Spalletti non abbia registrato l’accaduto e sia pronto a mostrare il DVD a Hulk, un calciatore che, forse, in carriera non vincerà nemmeno la metà dei trofei che Zanetti conserva in bacheca. Sulla custodia della registrazione, però, ci piacerebbe che venisse inciso un messaggio: bambini si nasce, adulti (e campioni) si diventa. Forse.

Alessandro Lelli
Alessandro Lelli
Nato a Genova nel maggio 1992; è un appassionato di calcio, basket NBA e pallavolo (sport che ha praticato per molti anni). Frequenta la facoltà di Scienze Politiche, indirizzo amministrativo e gestionale.

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