Tifosi oltre la vittoria

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Tifare e sostenere sempre la propria squadra dovrebbe essere la Bibbia per ogni tifoso che si rispetti, ma ormai questo non è più un concetto così scontato. La nuova generazione di tifosi, ormai, è mercenaria almeno quanto i giocatori. Chiedere il rimborso dell’abbonamento per la partenza di due giocatori – seppur figure centrali nell’economia della squadra – è una cosa tanto ridicola quanto squallida, perché allo stadio si va per sostenere la squadra, sempre e comunque.

Il calcio non ha bisogno dei cosiddetti tifosi occasionali, quelli che scendono a festeggiare in piazza muniti di maglia, cappellino e bandiera della propria squadra quando si vince, e pronti a criticare allenatore, giocatori e presidente alle prime due sconfitte consecutive. Nel calcio, come nella vita, si può vincere e si può perdere. La base di un matrimonio ben riuscito è restare uniti nella gioia e nel dolore, e le nozze tra un tifoso e la propria squadra di calcio dovrebbero avere le stesse fondamenta. Perché è facile fare l’abbonamento quando si ha lo squadrone ammazzacampionato e poi stracciarlo non appena vengono venduti giocatori ritenuti decisivi.

L’anno scorso mi è capitato di assistere a un Inter-Genoa a dir poco spettacolare, con i rossoblu in vantaggio a fine primo tempo per 0 a 1. Il risultato? Fischi da (quasi) tutto lo stadio, con soltanto una curva ad applaudire i giocatori spronandoli a fare meglio nella ripresa. Eppure quella squadra appena fischiata era reduce dal celebre triplete, a cui andavano sommati la vittoria in Supercoppa italiana e quella del – si fa per dire – prestigioso Mondiale per club. Inutile dire che nella ripresa l’Inter ribaltò il risultato segnando ben 5 gol, con tutto lo stadio ad applaudire gli stessi giocatori che, 45 minuti prima, erano bolliti e non più in grado di dare un contributo alla squadra.

Il tifoso occasionale è anche questo: non guarda il contesto, non capisce che in una stagione lunga ci possono essere momenti buoni e altri di difficoltà, non riesce a immagazzinare l’idea che le partite durano 90 minuti, e durante tutto l’arco dell’incontro il tifoso ha l’obbligo morale di sostenere la propria squadra. Poi, una volta terminata la partita, c’è anche lo spazio per le critiche; ma dopo, non durante l’incontro.

Questa volta tocca ai cugini però prendersi una sgridata. Ma come, la società decide di vendere Ibrahimović e Thiago Silva per ben 62 milioni di euro, e vi lamentate? Decisivi quanto volete, ma per quella cifra direi che fosse quasi obbligatorio accettare, visti i tempi. O forse era meglio tenersi un giocatore col mal di pancia – che arriva puntuale ogni due stagioni – e un altro con la testa a Parigi? Quegli stessi giocatori che, la scorsa stagione, non ti hanno comunque portato nessun trofeo in bacheca. L’Inter dopo la cessione di Ibrahimović ha vinto 5 trofei, riutilizzando quel denaro in maniera intelligente.

Ripartire dai giovani, possibilmente italiani, in questo momento è una scelta molto razionale. Come lo è razionale prendere Montolivo a parametro zero, come lo è andare a pescare un difensore appena 23enne nella squadra campione di Francia pagandolo poco meno di 10 milioni. E siamo solo al 25 luglio, mancano ancora 35 giorni di mercato e può davvero succedere di tutto. Soprattutto considerando che, come avete potuto notare l’anno scorso con Nocerino, gli affari si fanno alla fine del mercato, non all’inizio.

Forse per sostituire Ibrahimović ci vorrebbe un attaccante rapace, un uomo d’area. Uno capace di convertire in gol qualsiasi pallone sporco. Uno alla “SuperPippo” Inzaghi. Un giocatore, anzi ex giocatore, che ha da poco deciso cosa farà da grande: l’allenatore, ripartendo dal basso e in particolare dai giovani. Guiderà gli allievi nazionali del Milan, la squadra per cui ha giocato negli ultimi 11 anni, la compagine per cui ha segnato ben 73 volte in 202 partite ufficiali.

Tanti gol. Tanti gol ai quali vanno aggiunti i 54 realizzati con la maglia della Juventus tra il 1997 e il 2001, anno in cui passò ufficialmente ai rossoneri. Uno che ha costruito la propria carriera sul filo del fuorigioco, realizzando il sogno di diventare il secondo attaccante più prolifico nella storia della Champions League, alle spalle dello spagnolo Raúl González Blanco, non proprio uno qualunque. Quella stessa Champions League che lui è stato in grado non solo di vincere per ben due volte, ma di decidere da protagonista assoluto, segnando due gol “alla Inzaghi” contro il Liverpool nella finale di Atene, rivincita di Istanbul 2005.

Ma non è tutto, perché per un campione che va, ce n’è uno che ritorna: chissà che i tifosi (o presunti tali) che hanno chiesto il rimborso dell’abbonamento non debbano mangiarsi le mani per il ritorno a casa del “figliol prodigo” Kaká, dato che molte agenzie hanno riportato la notizia dell’incontro tra il suo procuratore Paolillo e l’amministratore delegato del Milan Adriano Galliani. Qualcosa sta sicuramente bollendo in pentola, poco ma sicuro.

Allo stadio, però, si dovrebbe andare per la maglia, non per chi la indossa o in base alla classifica della squadra. Perché di mercenari ci bastano già i calciatori, non abbiamo bisogno anche dei tifosi.

Alessandro Lelli
Alessandro Lelli
Nato a Genova nel maggio 1992; è un appassionato di calcio, basket NBA e pallavolo (sport che ha praticato per molti anni). Frequenta la facoltà di Scienze Politiche, indirizzo amministrativo e gestionale.

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