Il punto della settimana calcistica, Italia: la fine di un’era di dominio.

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Dagli anni ’60 ad oggi siamo stati sempre abituati a exploit più o meno frequenti. Siamo parte importante della storia del nostro sport ma, visti i risultati e visto ciò che rappresentiamo oggi, come calcio, non si direbbe affatto. L’Europa non ci aspetta e si ha l’impressione che il treno dell’eccellenza del calcio stia partendo mentre noi, impotenti (forse), restiamo alla stazione a guardare la partenza.

Gli esiti europei delle partite delle nostre squadre sono impietosi: solo il Milan è rimasto come rappresentante tricolore ai quarti di finale, Europa League compresa. Va bene la favola APOEL,va bene che erano più di 10 anni che non si vedeva un Champions così equilibrata, ma non basta a spiegare il nostro evidente tracollo. Perché siamo costretti ad essere spettatori di  questo decadimento?

Punto primo: gli stadi. Andando in  giro per il nostro continente, difficilmente troveremo club che non possiedono stadi di proprietà e non sicuramente nei campionati più importanti. Camp Nou, Bernabeu, Old Trafford, Anfield Road, Emirates Stadium. Tutti nomi di teatri maestosi del calcio che solo a leggerli continui brividi pervadono la schiena. Ma il punto non è questo: il nocciolo della questione è che tutti questi favolosi impianti appartengono alle squadre che vi disputano le partite casalinghe, con relativi introiti commerciali, pubblico e tifosi tutti più vicini al club in ogni aspetto riguardante la vita della società, merchandising  e quant’altro. Noi abbiamo questi esempi? No. San Siro e Olimpico sono stadi che a livello spettacolare non hanno nulla da invidiare ad altri campi esteri ma, ahimè, sono pur sempre fatiscenti, decadenti e decaduti, di proprietà comunale. Ergo: per le società 0 euro o lire che dir si voglia. Il peso di una concezione calcistica d’età paleolitica inizia a piegare le schiene dei nostri club e del nostro movimento tutto. Progetti e chiacchiere? Molte. Fatti? Zero, anzi, uno, lo “Juventus Stadium”. Che il vento di freschezza innalzatosi a Torino porti rinnovamento nel resto dello stivale. Ne abbiamo davvero bisogno.

Punto secondo: poca fiducia nei giovani. Qualche tempo fa Conte, difendendo il proprio giocatore Giaccherini, affermò: “Se si fosse chiamato Giaccherinho ora sarebbe osannato“. E’ vero. In Italia, grande paese di patrioti, nel calcio c’è il culto dello straniero. Il brasiliano è più forte dell’italiano, il francese e il tedesco più forti dell’italiano e così via. Dare fiducia ad un giovane di un vivaio di una squadra nostrana (e ce ne sono molti davvero eccellenti) sembra essere l’eresia del secolo e ci si dimentica di età, inesperienza ed emozione per puntare su ultratrentenni affermati con le tasche piene e motivazioni vuote. nel calcio si deve avere possibilità di sbagliare, di apprendere, di mettersi al servizio del proprio team e di poter mettersi in mostra. Invece il primo errore è quello decisivo per spedire un ragazzo promettente chissà dove con un biglietto di sola andata. Il Barcellona venga preso come modello. Esempio banale? Per nulla. Victor Valdes, Puyol, Piquè, Fabregas, Busquets, Xavi, Iniesta, Messi e tutti gli altri che stanno già muovendo i primi passi non possono essere un caso, non possono passare inosservati. Crescere i propri talenti, come nel caso dei blaugrana, deve essere una filosofia, non un penoso obbligo di facciata. Allevare nuovi giocatori attraverso una mentalità vincente e spirito di squadra è la chiave per un club rivolto sempre al futuro e a traguardi importanti. In Italia? Tanti talenti spediti via e poi ricercati a peso d’oro (vedi Rossi), tanti potenziali fuoriclasse spediti a migliaia di km (vedi Balotelli e Santon). Troppe squadre pensionabili, ridotte all’osso.Sembra essere questa la nostra filosofia.

Punto terzo: il gioco. Va bene il catenaccio, il vincere ad ogni costo, ma non siamo più agli anni ’60 quando la Grande Inter faceva del gioco all’italiana un vanto inestimabile. Il calcio cambia e anche rapidamente. Ogni pallone è velocità, completezza, spettacolarità e tecnica, fisicità e atletismo. Pensare di poterla spuntare con la difesa e contropiede e un’utopia. Oggi bisogna vincere e convincere. Non si può avere sempre e comunque un singolo che possa piazzarla lì, al di là del portiere,mentre i compagni di squadra sono lì ad osannarlo. No. Il calcio deve essere un movimento globale fatto di sincronismo, di armonia, di filosofia vincente, di sostegno reciproco e di disciplina tattica. A noi basta vincere. Il convincere è un verbo che non ci appartiene, purtroppo. Sacchi docet.

Il ranking UEFA è sembrato sempre come un qualcosa altro da noi, una favoletta che si racconta ai fanciulli per farli addormentare, un cosa così vicina ma così innominabile. Ebbene ora ne parlano tutti. Perché? Perché noi siamo un popolo che lascia correre, che di lungimiranza ne ha ben poca e questi sono i risultati. Preoccupandoci di Calciopoli e malefatte varie, abbiamo perso di vista la nostra condizione da Chiasso in poi. Oltre i nostri confini ci deridono e, permettetemi, fanno bene.

Eravamo i primi, fra poco saremo i sesti. Se ci mettiamo dentro la non osservanza dei tre punti evidenziati in precedenza, ci rendiamo conto di come mai una cosa tanto incredibile possa accadere a noi, figli del catenaccio e della storia, padroni della tattica e di 4 Coppe del Mondo.

Avanti così saremo uno di quei campionati mediocri che aspirano a diventare grande. Non si vive di passato. Non possiamo cullarci dietro Suarez e Mazzola, Rivera, Van Basten e Platini. Dobbiamo agire, per tornare primi. Il treno sta partendo, questa stazione fa davvero paura.

 

Marco Macca
Marco Macca
Vive a Formia (Latina) e studia Scienze della comunicazione a Roma. Collabora, oltre che con Mondopallone.it, con Calciomercato.it e con seriebnews.com.

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