Dichiarazioni: una partita giocata fuori dal campo

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Quante volte, specie d’estate (quando impazzano ricorsi e rimorsi), abbiamo detto che «non vediamo l’ora di tornare al calcio giocato», come se fosse l’unica cosa che conta nel mondo del pallone. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Perché è vero che il calcio finisce in tribunale con una regolarità degna di miglior causa (peraltro, molte conseguenze le paghiamo tutt’ora: se abbiamo addirittura 42 squadre tra Serie A e Serie B, lo dobbiamo al caso-Catania scoppiato nel 2003: la Serie B passò a 24 compagini, ripescando tre retrocesse più la Fiorentina, che ringraziò del regalo); ma ridurre tutto al solo agonismo in campo, beh, francamente mi pare molto riduttivo.

Parliamoci molto chiaro: se anche noi di MondoPallone siamo qui, è proprio perché il mondo del calcio non finisce confinato nei metri quadri del rettangolo verde. C’è tutto un mondo, là fuori: di dichiarazioni (di addetti ai lavori, di opinionisti, di uomini della strada), di discussioni, di dibattiti e, spesso e (mal)volentieri di scontri e litigi. Di opposte partigianerie; di polemiche mirate; di strategie per aiutare la squadra quando tornerà a trovarsi nel rettangolo di gioco.

Proviamo a fare un esempio, rimanendo nella partita giocata, ma cambiando sport. Nella pallacanestro, Dan Peterson era un maestro nell’inventarsi gli espedienti più vari per influenzare il risultato della partita: allenando l’Olimpia Milano, nella stagione 1982/3 in squadra aveva due gemelli. Trucco psicologico: su uno stesso giocatore, mettere in marcatura prima uno, poi cambiarlo con l’altro: l’avversario sarebbe rimasto colpito dal fatto che il suo marcatore… era fresco e riposato, eppure sembrava la stessa persona. Ma qui siamo ad un livello più elementare.
Il trucco migliore lo riservava agli arbitri giovani: se prevedeva che la partita sarebbe finita punto a punto, all’inizio del secondo tempo cercava di attaccare briga e farsi fischiare fallo tecnico (una punizione molto pesante). Obbiettivo di questa strategia apparentemente suicida: far quasi sentire in colpa l’arbitro inesperto, che così, nel finale concitato, sarebbe stato più incline a fischiare a favore di Peterson.

Questo per dire che tutto ciò che accade sul campo non esaurisce la partita in gioco. Ci sono mille altri fattori, e le dichiarazioni alla stampa (o direttamente in conferenza stampa, a caldo) sono tra i principali. Con parole taglienti o melliflue allenatori e giocatori tentano di influire sui fatti, o almeno sulla lettura da dare agli stessi; si cerca di insinuare un dubbio negli avversari, di pregiudicare gli equilibri altrui, o di salvaguardare i propri. Prendiamo Mourinho: un autentico maestro nella capacità di far quadrato attorno al suo gruppo, di scatenare polemiche sulle altre squadre e su di sé, e tutto questo al fine di rendere più compatta la propria squadra.

Ma questo è soltanto uno dei possibili modi per influire su una squadra attraverso la stampa. Ce ne sono di diversi, e in ogni caso ogni dichiarazione “forte” ha molte possibili interpretazioni e molti potenziali destinatari: c’è chi, come Lippi in Sudafrica, si prende le sue responsabilità senza prendersele (ne ho parlato qui), e soprattutto esordisce con una frase del genere solo per cercare di schivare le inevitabili scudisciate (ma lui lo faceva da tecnico già uscente; altro caso è quando un allenatore attacca i cronisti per mostrare alla squadra quale sia la grinta necessaria); c’è chi attacca un po’ chiunque ma mai i senatori del suo spogliatoio (ogni riferimento a tecnici di Testaccio è puramente casuale); ricordiamoci anche di Benítez, che sperava di salvare la panchina accusando la dirigenza di non avere fatto abbastanza; Mazzarri che elogia i suoi quando hanno giocato male, tentando di fare scudo alla squadra, e anche di ricavare gratitudine dai giocatori, visto che la faccia ce la mette lui (senza addossare la colpa a nessuno); Reja che si dimette e si ridimette e stavolta sono irrevocabili ma fino a un certo punto, e tutto questo per non rimanere stritolato né dalla tifoseria né da Lotito; Luis Enrique che approfitta del fatto di non essere madrelingua italiano per alzare il tono con una parolaccia; o Conte che tuona contro gli arbitri cercando di guadagnare qualche punto di considerazione, anche. Possiamo anche citare il caso curioso del panettone di Devis Mangia, che perlomeno ha usato un po’ di spirito (e un giorno ci spiegherà dove lo aveva comprato, a fine estate, un panettone…). A ben vedere, comunque sia, ogni dichiarazione cambia di sfumatura a seconda del punto di vista: per gli avversari, per la propria squadra, per la propria dirigenza, per gli arbitri, per i tifosi.

Poi, in fondo a tutto ciò, arriviamo noialtri: a raccontare la dichiarazione e a cercare il dietroscena, o a discuterne al bar dello sport. E magari a sbottare quando Mourinho (o negli ultimi mesi Mazzarri) sbraitano o piangono, salvo essere indulgenti se ad avere atteggiamenti bollenti è il mister dei nostri. Punti di vista, anche qui.

Post scriptum. La settimana passata avevo parlato delle favole in Champions, focalizzandomi sull’Apoel Nicosia. Avevo anche lanciato un amo per il Basilea, che nel primo dei due incontri aveva regolato il Bayern per 1-0 (dopo avergli appena venduto Shaqiri per 12 milioni). Sappiamo come è andata. Bene così.

Pietro Luigi Borgia
Pietro Luigi Borgia
Cofondatore e vicedirettore, editorialista, nozionista, italianista, esperantista, europeista, relativista, intimista, illuminista, neolaburista, antirazzista, salutista – e, se volete, allungate voi la lista.

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